Madrid - Non capisco perché molti operatori turistici e forse qualche critico d’arte poco informato si ostinino a sbandierare ancora, a proposito o a sproposito, il nome di (sir) Anthony Blunt - il “sir” tra parentesi è d’obbligo!- quando fanno riferimento al palazzo Beneventano di Scicli.
Chi fu, in verità, Anthony Blunt e quali rapporti ha avuto col nostro palazzo Beneventano?
Anthony Blunt fu una delle personalità più amorali del Novecento. Un crepuscolare e modesto professorino di Cambridge che nella sua prima giovinezza s’interessava all’arte moderna e, poi, alla pittura di Poussin e, in un terzo momento, al Borromini solo perché non sapeva trovare risposte giuste alla sua vita annoiata di parvenu e d’infaticabile arrampicatore sociale.
Figlio di un mediocre pastore anglicano, in effetti, il Nostro era tutt’altro che tranquillo e modesto. Il suo carattere squisitamente anglosassone, enfatizzato da una cultura pedante e, a volte, maldestramente esibita fece di quest’uomo, in un primo tempo, un autentico mostro sacro della Storia dell’arte. Tranne essere ridimensionato e, addirittura, sconfessato dall’Intellighenzia inglese nel momento in cui si dissipano le nebbie necessarie dentro le quali occultava come un’olimpica divinità i vizi, le infamie e le bassezze di una vita che non aveva saputo far riscattare dalla bellezza di cui spesso aveva finto di occuparsi.
Nel 1939, entrato a far parte, con altri quattro personaggi del Trinity College di Cambridge, del Servizio segreto inglese (il MI 5, nel suo caso), cominciò a collaborare come spia col famigerato NKVD (poi ribattezzato KGB) russo e lo fece ininterrottamente fino agli anni Cinquanta del Novecento, ammantando la sua vera e triste identità di un’inspiegabile autorità dottrinale.
A lungo fu una vera e propria incognita per Scotland Yard che lo aveva soprannominato “il quarto uomo” nell’impossibilità di attribuirgli un volto e un nome.
La sua folgorante carriera, permessa e facilitata dalla Corona, si spiega solo con un tentativo di ricatto messo in atto, pare, dal soggetto ai danni della famiglia reale inglese. Ricatto riguardante alcune insinuazioni che volevano il duca di Windsor (Edoardo VIII prima di abdicare al trono d’Inghilterra per sposare la divorziata americana Wallis Simpson) simpatizzante Nazi e collaborazionista con il regime di Hitler.
Nel 1945, infatti, fu sorprendentemente nominato “Sir” ed “esperto personale della regina nonché curatore delle collezioni reali”. Ufficio questo che gli aprì le porte di Buckingham Palace e diede autorevolezza a sue diverse “expertise”, rivelatesi in seguito delle autentiche e ben congegnate truffe ai danni di musei o di amatori privati.
Dopo i primi anni della “guerra fredda”, nel 1964, l’Intelligence inglese riuscì infine a localizzarlo, grazie anche alle delazioni di uomini che al contrario di lui non avevano saputo ben mimetizzarsi e riciclarsi.
Anthony Blunt, interrogato, da perfetto doppiogiochista in quell’occasione vuotò il sacco, questa volta tradendo gli antichi committenti russi. In contropartita gli fu garantita in segreto un’apparente impunità che avrebbe avuto l’unico scopo di evitare un imbarazzo alla fragile e già da allora chiacchierata monarchia inglese.
L’enorme polverone suscitato nel 1979 dalla pubblicazione del romanzo di Andrew Boyle “ The climate of treason” che lo ritrattava in Maurice, il protagonista di un precedente racconto di E.M. Forster, obbligò però Margaret Thatcher, nel 1979, nella “Camera dei Comuni”, a svelare ufficialmente il suo ruolo.
Lo scandalo fu enorme e incontenibile. Il finto dandy con la puzzetta sotto il naso fu subito privato non solo del titolo onorifico ma anche dei titoli accademici che gli avevano permesso a lungo di fare davvero il bello e il cattivo tempo nel mercato dell’arte.
Vennero fuori storie disgustose e miserabili che davano ora la cifra esatta della sua perversa e repressa personalità.
A parte la forte ed evidente inclinazione omosessuale di solito ostentata con superiore disprezzo d’esteta, si seppe tra l’altro che diversi allievi erano stati i veri autori dei libri che invece si vantava di avere scritto.
Molti si sono a lungo interrogati più tardi nel Regno Unito, in Europa e in America come mai un soggetto simile avesse potuto durare così a lungo.
Visse gli ultimi giorni della vecchiaia solo, in compagnia dell’amante di sempre, quasi prigioniero della sua casa londinese, dove morì, povero e pazzo, due anni dopo di essere stato smascherato.
Miranda Carter, una delle più sincere e oneste biografe di Blunt, alla fine della sua monumentale opera si fa la stessa domanda che fecero a Blunt i media di tutto il mondo nell’immediatezza della sua confessione: “Perché l’ha fatto? Perché ha tradito?”
Il personaggio non seppe dare all’epoca una risposta né una risposta ha saputo dare la Carter nella sua importante biografia.
E una risposta credo che non ci sia, in effetti. L’unico commento possibile, in questo caso, lo suggerisce Hannah Arendt quando in altre occasioni si è come me convinta della banalità del male.
E il palazzo Beneventano?
Nel 1965 Blunt venne in Sicilia invitato dai signori Robertson a tenere delle lezioni in un corso estivo. Colse al volo l’occasione per visitare l’isola in compagnia del suo amante, John Gaskin, e di altri amici tra cui Tim Benton, un allievo. A commento delle fotografie scattate da quest’ultimo, il Blunt pensò poi di scrivere un breve saggio sul barocco siciliano. La pubblicazione apparve a Londra nel 1968 per i tipi della Weidenfield and Nicolson ltd e subito suscitò un enorme interesse più che in ambito europeo negli ambienti culturali transatlantici, motivo per cui il Blunt in seguito curò una nuova edizione destinata specificamente al mercato americano.
Oggi questo testo in Italia è pressoché introvabile. In Inghilterra circola ancora qualche copia mentre è possibile ritrovare diverse copie “americane” ancora disponibili sul mercato statunitense del libro raro e antiquario.
Nel saggio, “Sicilian Baroque”, figurano tre fotografie del palazzo Beneventano ed in specie: il particolare di un mascherone grottesco che orna una sovrapporta esterna, le mensole scolpite di un balcone raffiguranti fantastiche figure e il celeberrimo “canto”.
Il testo dedica vari capitoli al barocco siciliano. Analizza in particolare il barocco di Noto, Modica e Ragusa e la cosiddetta transizione al neoclassicismo, malinconico tramonto di un’arte, a torto ritenuta inferiore, che merita di essere sempre più approfondita e rivalutata.
E’, infatti, a proposito del palazzo Villadorata di Noto che il Blunt testualmente scrive a pag. 20 della prima edizione londinese di “Sicilian Baroque”:
“Più strano è il palazzo Villadorata, famoso per i suoi balconi sorretti da mensole che mostrano, scolpiti, leoni, cavalli alati, volti umani che emergono da foglie di acanto, e grottesche figure poste là a custodia, simili ai doccioni di scarico delle cattedrali tardogotiche. Questo tipo di balcone si può vedere in molti palazzi di Noto e in altri (centri ndr.) del distretto del sud-est. Per quanto l’esempio più antico dovrebbe essere individuato in qualche balcone di Palazzolo Acreide e forse il più curioso in un palazzo di Scicli nel quale alcune teste sembrano ritratti caricaturali dello stesso naturalismo grottesco presente nelle statue di Villa Palagonia a Bagheria.”
E ancora a commento delle fotografie in bianco e nero di palazzo Beneventano:
“Nulla si sa circa la paternità di questo straordinario palazzo che dovrebbe datarsi alla seconda metà del Settecento.”
Fra le note, alla fine del testo, ai numeri 87, 88, 89, a proposito del palazzo Beneventano, si legge:
“Questo palazzo è apparentemente unico in Sicilia per la sua eccezionale decorazione. I pilastri sono abbelliti con un motivo ripetuto che sembrerebbe essere uno scudo; alcuni balconi sono sorretti da figure grottesche le cui teste vorrebbero rappresentare ritratti caricaturali alquanto truci, simili ad altri lavori presenti a Villa Palagonia di Bagheria; e alcuni mascheroni che ornano le sovrapporte si ascrivono probabilmente a uno stile fluido riconoscibile in modelli fiorentini del tardo manierismo. Modelli che lo scultore può avere visto attraverso stampe. La datazione del palazzo risale con molta probabilità alla metà del sec. XVIII.”
A parte l’attribuzione del convento del Carmine al Gagliardi, mutuata dal Bottari, nulla il Blunt scrive stranamente sugli altri monumenti della nostra città mentre si dilunga a dismisura non solo sul barocco di Noto ma anche sul barocco di Modica e soprattutto di Ragusa.
L’affermazione attribuita al Blunt che spesso leggo in vari documenti e che considererebbe il palazzo Beneventano il più bello di tutta la Sicilia è manifestamente infondata, dunque, come pure è erroneamente attribuita al palazzo Beneventano la frase del Blunt contenuta a pag. 25 di “Sicilian Baroque”diretta a esaltare, invece, le qualità del barocco netino:
“La pietra, che proviene da cave non lontane a nord, è delicata come quella di Catania ma di un colore giallo dorato pallido che sotto il sole acquista un’indescrivibile ricchezza (di sfumature ndr.). Può essere anche lavorata in complicate forme per la sua morbidezza, ma può anche essere lasciata liscia, perché la pura bellezza della sua natura parla da sola.”
Da tempo nutro il sospetto che anche questa pubblicazione, Sicilian Baroque, sia stata confezionata dal sig. Blunt a tavolino scopiazzando da scrittori locali più o meno attendibili (non mi sarei sorpreso se avessi trovato anche il nostro ineffabile Angelo Aprile fra la sua citata bibliografia), attingendo a piene mani da lavori commissionati a suoi studenti e ricercatori senza neppure degnarsi veramente di studiare in loco i monumenti esaminati, eccezion fatta per pochi casi eclatanti.
Prova ne è la totale assenza del consistente barocco sciclitano dalla sua disamina -eccetto i due casi da me sopra ricordati- per il quale non esisteva a quei tempi neppure una modesta letteratura.
Dell’architetto Salvatore Alì, per esempio, presente a Scicli nella rimodulazione della facciata di San Bartolomeo, il Blunt dice solo a proposito del ricostruito palazzo Beneventano del Bosco di Siracusa. Del Marvuglia, di cui parla diffusamente come maggiore esponente del nuovo neoclassicismo siciliano, nessuna allusione, invece, si ritrova nella sua opera in merito all’abside della sciclitana Santa Maria La Nova.
E allora, perché continuare a citare questo losco figuro e scrivere nelle pubblicità inesattezze e stupidaggini che servono solo a distrarre il visitante, a confondere lo studioso e l’ospite?
Chiedo con un accorato appello a tutti i nostri operatori turistici, dunque, di correggere i loro pamphlet e le notizie già pubblicate nei vari website, di espungere il nome di Anthony Blunt.
La splendida dichiarazione con la quale Scicli e i suoi monumenti sono stati inseriti nell’Heritage List dell’UNESCO è il migliore biglietto di presentazione che la città può esibire a quanti desiderano visitarla o la amano. Usiamola! Citiamola con orgoglio, a proposito e a sproposito! Anche perché redatta da Uomini probi che hanno avuto e tuttora hanno come unico affanno promuovere e proteggere l’Arte.
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