Vittoria - L'uomo che ha fondato il museo del carretto che non c'è si chiama Giovanni Virgadavola. Poeta, "cuntista", affabulatore, pittore. E il museo, sogno e ossessione di una vita, riguarda la sua collezione di 40 carretti siciliani. Anzi, "di carretti iblei", come tiene a chiarire subito. Settantadue anni, tarchiato, capelli crespi imbiancati, guance perfettamente rasate, la fronte segnata da anni spesi nella fatica del lavoro nelle campagne e nelle serre vittoriesi. È un contadino. Da una decina d'anni è in pensione. E si ritrova totalmente assorbito da quelle che sono missioni più che passioni: il carretto e il "cunto".
Perché inizia a collezionare carretti?
«Perché sono andati via via scomparendo e, conoscendo bene l'importanza di questo mezzo, ho voluto tramandarne il valore storico, artistico ed educativo. Acquisto i primi carretti intorno alla metà degli Anni Sessanta. Quando vengono già considerati "fierru viecciu". Inizialmente li ho tenuti nella mia campagna. Perché io sono un contadino. In seguito, li ho raggruppati in una serra. Tant'è vero che si è sempre parlato, soprattutto fuori provincia, della serra-museo di Virgadavola. Ma la verità è che ho sempre cercato una sistemazione migliore. Il sindaco Nicosia, mi ha promesso che saranno trasferiti in un vero e proprio museo dedicato».
Il valore di un carretto da cosa viene determinato?
«Un carretto può essere valutato in base alla decorazione. Più è ricca, più alto è il valore. Il prezzo di un carretto può raggiungere anche i ventimila euro».
Lei è sempre stato sostenuto dalla sua famiglia?
«Purtroppo ho trovato l'opposizione di mia madre. Non ha mai compreso la mia scelta. Mia moglie e i miei figli, invece, hanno capito che per me non era una semplice passione».
I cavalli che importanza hanno avuto nella sua vita?
«I migliori cavalli sono destinati alla nobiltà del calesse. La razza degli Iblei pesa circa 450 chilogrammi e viene "usata" per il lavoro in campagna. Senza l'aiuto degli animali da traino i contadini non avrebbero potuto lavorare la terra. Il cavallo è investito da un valore affettivo notevole. È parte della famiglia, in quanto contribuisce all'economia lavorando quotidianamente. È considerato un "figlio". Io ho avuto, negli anni, una serie di cavalli. Varie razze, il Ferrante, il Baio rossastro, "'U Niuru". Il cavallo più amato è stato Dollaro. Deve questo nome alla vittoria conseguita in una gara di tiro. Il suo vecchio proprietario, per farmi capire quanto fosse veloce, mi dice "ca curri quantu nu dollaru". Così lo chiamo Dollaro. Dopo la sua morte decido di non tenere più cavalli. Troppe le cure e le attenzioni necessarie. L'urgenza è un'altra. Il cavallo ha un valore "minore" nella difesa delle tradizioni della vita agricola degli Iblei».
La Sicilia