Catania - Nei giorni scorsi si è laureata, presso la facoltà di Scienze della Comunicazione dell'Università di Catania, la sciclitana Francesca Assenza, con un interessante lavoro sulla Fame nel cinema italiano del dopoguerra. Ragusanews ne pubblica uno stralcio, per gentile concessione dell'autrice.
“A casa nostra, nel caffelatte non ci mettiamo niente: né il caffè, né il latte”.
(Totò in “Miseria e nobiltà”)
All’interno di questa tesi, si vogliono indagare le abitudini, i luoghi e i modi del non mangiare italiano visti attraverso l’occhio cinematografico.
Il rapporto tra gli italiani e il cibo non si riduce solo ad un fine utilitaristico ma è qualcosa di innato, passionale e a volte anche patologico, che si accresce nel momento in cui viene a mancare o in maniera diametralmente opposta ad eccedere.
In particolare i film del dopoguerra mostrano e ci fanno cogliere in maniera evidente il trinomio cinema, cibo e fame. Prima di allora, infatti, sono rare le ambientazioni in cucina ed è altrettanto raro vedere qualcuno che mangia; solo negli anni Trenta, con Comencini, si può iniziare ad intravedere qualche tavola in più. Nel dopoguerra la mancanza di cibo diventa per i registi necessità di esprimere un' urgenza che spesso si traduce in esorcizzazione della paura del morire di fame, oppure semplice rappresentazione sociale di ciò che gli italiani portano o desiderano portare sulle loro tavole. È anche vero che a volte il cibo funge da spunto o diventa segno rivelatore di tematiche più ampie.
Ne è un esempio Ossessione di Luchino Visconti del 1942. Nel film, il dialogo tra l’affamato Gino e Giovanna davanti alla pentola di minestra ha un grande carattere metaforico, già dall’inizio il cibo ci dà le coordinate necessarie affinché la trama vera e propria cominci.
I film comici che hanno come protagonista Totò svelano invece la continua e instancabile ricerca di cibo, nonché capacità di sorridere nella disperazione più tragica. In Fifa e Arena si vede un Totò che sta davvero morendo di fame, tant’è che si lancia alle prese della preparazione di uno pseudo-panino improntato con spugna, dentifricio, sapone e schiuma da barba.
Anche le donne rappresentate nella cinematografia italiana assumono il ruolo di angelo del focolare che provvede alla famiglia e spesso la salva dal morire di fame, anche se non può fare ‘l’eroismo’ come gli uomini.
Fino ad arrivare all’epoca dell’abbondanza nella quale il cibo non è più ricerca del bisogno da soddisfare che salva la vita, ma paradossalmente è il modo per superare la fame di altro.
La fame è il filo conduttore che attraversa tutto il cinema italiano a tutti i livelli e diventa strumento utile per leggere il paese e la natura dei suoi abitanti.
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2.
LA FAME DI TOTO’
Per comprendere al meglio il rapporto Totò-cibo-fame occorre osservare la figura della maschera di Totò da diversi punti di vista. Da una parte è importante considerare il rapporto storico-sociologico, ma non bisogna soffermarsi solo a questo, perché ne verrebbe sicuramente fuori un’analisi riduttiva e stereotipata. La stessa nella quale sono caduti tutti quelli che negli anni hanno tentato di affibbiargli un’etichetta piuttosto che un’altra. Dall’altra, chiarito che Totò non si può assolutamente ridurre a definizioni e categorizzazioni, non si può far altro che parlare del suo modo di sconvolgere ruoli e confini.
Antonio Escobar suggerisce di guardare a Totò con gli occhi incantati della memoria e della meraviglia, proprio per evitare i limiti della valutazione. Memoria e meraviglia per scoprire una figura fuori dal tempo. Non un personaggio, non un protagonista di storie, ma qualcosa che muta continuamente e che però resta sempre la stessa cosa: “«Il vero Totò non sta né in alto né in basso, ma lo si può trovare intento ad innalzare quel che è basso e abbassare quel che è alto»”. [1]
Per comprendere a pieno il mondo di Totò, però, bisogna chiamare in causa altre due parole molto importanti e sempre presenti nei suoi film: Miseria e Comicità.
E come diceva lo stesso Antonio De Curtis: «Io so a memoria la miseria e la miseria è il copione della vera comicità. Non si può far ridere se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette ammobiliate alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia; e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffelatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione. Insomma, non si può essere un vero comico senza aver fatto la guerra con la vita». Si può facilmente intuire che Totò si è fatto carico di tutta la sofferenza di Antonio fino a trasmutarla in puro genio interpretativo. Egli porta in scena la miseria, la fame, i ricordi mortificanti di una vita passata tra gli stenti e paradossalmente ride di essi. La fame di Totò ha la capacità di passare dal dramma più disperato all’ilarità più buffonesca.
Saranno ancora le parole di Antonio De Curtis a garantire una migliore spiegazione: «La mia è fame atavica, provengo da una famiglia di morti di fame». Questa è un’ulteriore conferma della sua appartenenza al circolo degli “stomaci vuoti”.
Certamente, la creazione di un personaggio, di una maschera così come lo è stato per Charlie Chaplin, è percorso inevitabile anche per Totò che si mostra come riflesso, sia pure con le dovute cautele che l’affermazione richiede, della personalità di Pulcinella. La maschera napoletana per eccellenza. E non mancano critici come Alberto Anile che negano la parentela a Pulcinella, considerandola stereotipata e banale.
A tale proposito, la risposta di Federico Fellini alla domanda se Totò fosse stato “usato” male al cinema, sintetizza bene la sterilità della polemica: «Ma Totò non poteva fare che Totò, come Pulcinella, che non poteva essere che Pulcinella, cosa altro potevi fargli fare? Il risultato di secoli di fame, di miseria, di malattie, il risultato perfetto di una lunghissima sedimentazione, una sorta di straordinaria secrezione diamantifera, una splendida stalattite, questo era Totò. Il punto di arrivo di qualcosa che si perdeva nel tempo e che finiva in quel modo con l’essere fuori del tempo». [2]
Tuttavia, visionando gran parte dei film mi sono resa conto che entrambe le affermazioni non sono del tutto false. Perché, sebbene da una parte Totò richiami inevitabilmente alle caratteristiche tipiche di Pulcinella, dall’altra si capisce chiaramente che la fame di Totò non è la pura ingordigia pulcinellesca. Ma risulta essere qualcosa di pacato, per il semplice fatto che Totò appare diverso da un semplice ghiotto. Egli percepisce l’odore del cibo prima di vederlo, lo tocca, ci parla, ci gioca, ne discute.
Per quanto riguarda i punti di congiunzione, possiamo osservare che nel lessico di Pulcinella, così come in quello di Totò e in generale nella mentalità tipica napoletana, esistono delle parole chiave per l’interpretazione della realtà: ‘O munno, ‘a capa, ‘a famme, ‘o core, ‘a legge. ‘O munno (il mondo) è mistero regolato da fortuna e destino. Se la fortuna dà, il destino toglie, per questo “dint’o munno ce vò ‘a capa”, cioè occorre usare il cervello e farsi furbi.
‘O Core (il cuore) e ‘a Famme (la fame) vengono messi sullo stesso piano, perché l’amore e la fame sono due bisogni insaziabile dell’essere umano.
In particolare, la parole ‘Core’ ha un’ulteriore connotazione di significato e cioè come contrapposizione e trionfo sulla morte considerata nemica. Così come è nemica la legge, che si oppone a quei metodi più o meno leciti ma necessari per sbarcare il lunario e non morire di fame.
In Fermo con le mani (1937) di Gero Zambuto, noto per essere il primo film in assoluto interpretato da Totò, lo troviamo a vestire i panni di un vagabondo che inventa mille stratagemmi per sostentarsi, uno dei quali, la fantastica idea della canna da pesca per rubare il cibo su una tavola imbandita.
Oppure, nel film Napoli Milionaria (1950) di Eduardo De Filippo, si intuisce lo spunto che giunge dall’osservazione degli operai napoletani che mangiano lo sfilatino condito con carne e ventura. Ed ecco nascere la famosissima gag dello sfilatino, dal quale escono, non solo primo, secondo e contorno, ma anche saliera, posate e tovagliolo. Il pane ‘magico’ che da solo basta a soddisfare le necessità di un intero pasto. Questo è il sogno della gente disgraziata, qui grazie a Totò diventa cibo simbolo del trionfo della fantasia sulla paura.
Ed è sempre nello stesso film di Eduardo De Filippo che il tema della borsa nera è più che mai presente. La borsa nera era uno dei tanti modi di arrangiarsi per sopravvivere; ma non l’unico. Era frequente nascondere la roba da mangiare in casa e nei posti più impensati, per esempio, il materasso. Poi, quando bisognava abbandonare la casa a causa dei bombardamenti, non si poteva lasciare la roba incustodita e all’arrivo della polizia per sgomberare l’abitazione c’era chi si fingeva morto. ‘Estinto per finta’, giacente immobile proprio su quel materasso che automaticamente diventava intoccabile. Il trucco, però, era molto praticato ed era diventato difficile imbrogliare il poliziotto di turno. Tuttavia, in quanto a credibilità da morto, Totò-Miele è imbattibile. Così si innesca la sfida tra Totò immobile sul letto e il Brigadiere che vuole, in una cornice di tremori e scoppi di bombe, almeno la soddisfazione di vederlo muoversi.
Egli trasferisce sullo schermo il suo mondo: la città di Napoli tutta intera, dai vicoli ai palazzi nobiliari, ritroviamo il teatro e le ballerine. Il divario tra ricchi e poveri, il lavoro per tirare a campare, la famiglia, i desideri, le speranze ed infine c’è la fame su tutto e dentro tutto. Senza la miseria e la fame la figura di Totò non avrebbe motivo di esistere.
Erroneamente, da disattenti osservatori, le mangiate golose di Totò sono state associate a quelle ingorde dei giganti dell’antica tradizione: Il Morgante di Luigi Pulci dal quale poi prese spunto il francese François Rabelais autore dei volumi Gargantua e Pantagruel. Tutti questi giganti hanno in comune tra loro le fantasie smisurate di cuccagna dove i sogni ricorrenti sono montagne di maccheroni e valanghe di formaggio. Ingurgitano montagne di cibo e bevande senza che vi sia la benché minima presenza di fondo nei loro stomaci. Non si tratta di una fame che si accontenta, ma che pretende.
Totò si discosta da questa visione perché la sua fame non arriva mai a tali bassezze o mostruosità. Certo anche lui si lascia andare a desideri onirici e gli capita d’ingozzarsi, ma lo fa in maniera più composta, da essere umano reale e affamato. Il suo rapporto col cibo non è selvaggio, rimane comunque giocoso e garbato.
Un estratto del film Il ratto delle Sabine (1945) rieditato nel 1950 col titolo Il professor Trombone, diretto da Mario Bonnard mostra apertamente come lo spettro della fame sia sempre presente, ma non per questo capace di trasformarlo in mostro ingordo che fagocita tutto ciò che gli capita a tiro.
Totò bussa alla porta del professore e appena entrato viene accolto dalla cameriera che scoppia a ridere:
“Cameriera: «Scusi, ma io ho un carattere allegro».
A.Tromboni: «Hai mangiato, eh?» (con fare sconsolato).
Cameriera: «Eh! Certo! Anche il padrone».
A.Tromboni: «Tutti mangiano…» (alzando gli occhi verso il soffitto)”.
Anche nei secondi immediatamente successivi al dialogo si può osservare la mimica di Totò che, col naso all’insù e l’olfatto allenato dalla fame, segue l’odore dei resti del pasto appena consumato fino alla tavola nella stanza adiacente. Così come si impadronisce con finta nonchalance del piatto di biscotti offertogli.
Un’altra figura riconducibile a Totò, oltre a quella di Pulcinella, è quella del ‘Pazzariello’ presente nel filmL'oro di Napoli (1954) di Vittorio De Sica.
‘O Pazzariello era un mestiere ambulante, che veniva esercitato a Napoli negli anni tra la fine del ‘700, per tutto l ’800 e fino agli anni cinquanta del ‘900. Quest’occupazione veniva svolta da chi era senza un lavoro, che pur di guadagnare quel poco per vivere o per arrotondare, si vestiva bizzarramente con abiti d’epoca da Generale Borbonico. Egli si mostrava in pubblico impugnando in una mano un bastone dorato e nell’altra, un fiasco di vino, o altri prodotti di prima necessità quali pane e pasta, che andava pubblicizzando per conto di una nuova Cantina o di una nuova Puteca (negozio di alimentari).
La funzione del Pazzariello non si esauriva solo a questo, spesso, oltre a stuzzicare le fantasie alimentari degli eventuali compratori per le strade della città, aveva il compito di saziare con le sue filastrocche anche chi non poteva mangiare e si doveva accontentare solo di sentire gli elenchi dei cibi prelibati.
La famosa frase resa celeberrima dal grande Totò all’inaugurazione di un locale che si apriva nei vecchi vicoli dell’antica Napoli, recitava:
«Attenzione…battaglione…è asciuto pazzo ‘o padrone…
…È una brava persona…è padrone di una pasta di sostanza…
…quando l’avrete mangiata…vi riempirete gli intestini e la panza…».
Fa lo stesso, grazie al suo potere saziante, nei confronti di chi lo guarda. Non sono forse presenti anche nei suoi film interminabili liste di cibarie prelibate? Naturalmente, saranno delle liste che purtroppo resteranno dei semplici elenchi di cibo solo sognato. Perché ciò che in realtà può mangiare è solo quella fetta di mortadella tenuta in tasca da tre giorni.
In Miseria e Nobiltà, Totò spiega al figlio cosa e come comprare: “Gli spaghetti conditi dall’inevitabile pummarola (due buatte bastano), saranno arricchiti da un sugo di salsiccia (ma fresca). Per secondo uova, una ventina (sono in cinque) con mozzarella di Aversa (ma solo se esce latte, sennò desisti). Poi un po’ di frutta secca e, per innaffiare il tutto, del vino frizzante. Per finire anche due sigari, che denotano gusti da viveur”.[3]
Naturalmente il cibo è fraseggio di ogni cosa: la moglie di Miseria e Nobiltà accusa Totò di “mangiare con le altre donne, insinuazione che va ben oltre e al di là di qualsiasi atteggiamento adultero, Totò infatti tira fuori spesso il cibo come metafora di massimo appagamento amoroso o sessuale”. [4]
Senza dubbio la scena più famosa del film Miseria e nobiltà (1954) di Mattoli è quella che vede le due famiglie di morti di fame riunite all’interno della modesta abitazione, seduti attorno al tavolo, che inizialmente è vuoto.
Si capisce chiaramente che essi vorrebbero consumare un pasto che non c’è, si ha la percezione che veramente stiano morendo di fame. Tuttavia, si ostinano a voler rispettare un rito che purtroppo rimarrà incompiuto.
Il tavolo vuoto sembra possa diventare un feretro, mentre gli interpreti intorno incarnano il ruolo dei parenti tristi del defunto. Infatti, come detto sopra, spesso l’assenza di cibo, la fame, richiamano e si associano alla morte.
Improvvisamente, però, ecco che avviene il miracolo e le due tristi e affamate famiglie si ritrovano a fissare con gli occhi sbarrati ed increduli l’entrata in scena di camerieri impeccabili che apparecchiano lussuosamente la tavola con posate, piatti, bicchieri, tovaglioli disposti secondo le regole del bon-ton e pietanze che non avrebbero potuto neppure immaginare nei sogni più sfrenati.
Essi stanno immobili come se avessero paura che un solo movimento, una sola parola possano far dissolvere il miracolo al quale stanno assistendo. Solo con gli occhi seguono l’andirivieni dei camerieri e si tratta di occhi che vogliono spiare più che vedere. Comunque, non sarà la vista a dissolvere il dubbio dell’allucinazione; sarà l’olfatto.
“Il modo in cui, Totò, ci fa qui sentire che è raggiunto dagli odori del cibo, il modo in cui ci mostra come quegli odori lo stanno trasportando in una beatitudine che non approda alla sublimazione della fame perché stimola di più il desiderio di raggiungere il cibo che adesso è diventato autentica preda”.[5]
A questo punto, presa coscienza della reale presenza del cibo sul tavolo, assistiamo ancora per qualche attimo all’esitazione dei morti di fame. Si avvicinano al banchetto, con cadenza uguale, quasi a balzi, accostano le sedie come se volessero iniziare il rito del pasto con tutte le buone maniere che la buona educazione prevede. Ma presto il rito del pasto viene sostituito dal rito cannibalico che capovolge ogni cosa trasformando la scena triste e mortificante in visione allegra e infantile felicità liberatoria.
Antonio De Curtis, per tutta la vita, tenne sempre a separare la propria vita privata e personale da quella pubblica e popolare di Totò. E in effetti le due personalità erano molto diverse tra loro, per quel che concerne, in particolare, le abitudini alimentari.
Se da una parte Totò preferiva la birra al vino, il Principe De Curtis beveva pochissimo, però, le sue scelte sono attente e di ottimo gusto: un po’ di Bordeaux durante i pasti, due dita di Champagne alla sera. Un bourbon come aperitivo e un cognac spagnolo Cardenal Mendoza alla fine del pasto.
Il principe, al contrario di Totò, mangiava pochissimo ed era terribilmente abitudinario. Detestava i ristornati alla moda, non solo per la folla che con ogni probabilità lo avrebbe importunato “come Totò”, ma per una insofferenza naturale verso il cibo preparato senza il suo personale controllo.
Racconta Franca Faldini: «Con un pretesto e l’aria svagata andava a girellare in cucina e se, tornando al tavolo, ordinava prosciutto e melone e niente più, il verdetto era estremamente negativo. Mai però prosciutto e fichi”. “Perché i fichi – diceva il principe Totò – li pelano con le mani e io schifo quelle mani dalle unghie listate a lutto di certi cuochi che forse hanno appena toccato chissà che, possono avere avuto un’urgenza idraulica, e probabilmente non se le sono neppure lavate!»[6].