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Vitti na crozza, nuova luce su una canzone misteriosa

Una denuncia contro la Chiesa

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E’ la canzone siciliana della tradizione popolare per antonomasia, e Ragusanews se ne è occupato, a più riprese, in passato.
Anche perché l’hanno interpretata, nell’era moderna, Vasco Rossi, Laura Pausini, Carmen Consoli, Franco Battiato, Gianna Nannini.
Oggi una nuove luce viene gettata su “Vitti na crozza”, grazie a un’appassionata donna palermitana, Sara Favarò, cantante, studiosa, autrice di un libro.
Il termine più criptico della canzone è “cannuni”, che, secondo una autorevole interpretazione, sarebbe la corruzione di “cantuni”, termine che, nel dialetto siciliano del centro Sicilia, è la porta, l’ingresso della zolfara.
E proprio dal mondo delle zolfare questo testo emerge dal nulla.
La maggior parte delle persone ha sempre ritenuto che il famoso ‘cannuni’ dove si trova il teschio, protagonista della canzone, fosse il pezzo di artiglieria cilindrico utilizzato per fini bellici, e che la canzone si riferisca ad un tragico evento di guerra. Ma così non è!

Vitti na crozza, a dispetto del ritornello, un refrain che tradisce una malinconica allegria, “non è una canzone allegra e non ha nulla a che vedere con un vecchio canto di guerra”, spiega Sara Favarò.

“Pochi sanno che sono strofe drammatiche, che riportano al mondo delle zolfatare e ai minatori che morendo dentro le viscere della terra non erano degni di ricevere l’ultima benedizione in chiesa”, spiega Sara.

Protagonista della canzone infatti è una crozza, un teschio che invoca una degna sepoltura.
Una ricerca durata dieci anni quella di Sara Favarò, che ha anche scritto un libro, “La messa negata, storia di Vitti na crozza”.

La canzone dice: “Ho visto un teschio sopra l’ingresso di una miniera, sono stato curioso, ho voluto chiedergli, e mi ha risposto: che gran dolore, morire senza neanche il rintocco di una campana!”.

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I minatori, fino agli anni cinquanta del Novecento, non potevano avere, secondo un uso della Chiesa cattolica, né la messa da morto quando perdevano la vita in disgrazia dentro il ventre della terra, né tantomeno l’onore del rintocco delle campane.
Nel 1944 grazie a un sacerdote l’usanza cambiò.
A Lercara Friddi in una miniera ci fu uno scoppio in cui persero la vita undici minatori.
L’allora prete, monsignor Aglialoro, anziché obbedire al dettato della Chiesa, fece suonare le campane a morto, disse la messa, e, non contento, volle scendere giù, in miniera, per andare a celebrare un’ulteriore messa per quei poveri resti che non avrebbero potuto essere esumati.

Il teschio, attraverso il suo racconto, si fa promotore di una denuncia sociale.
Scrive il professore Francesco Meli dell’Università Iulm di Milano nella prefazione al libro: "La storia narrata ha dell’incredibile. Con intensa indignazione Sara ripercorre l’ostracismo perpetrato dalla Chiesa, incredibilmente cessato solo verso il 1940, nei confronti dei minatori morti nelle solfatare. I loro resti mortali non solo spesso rimanevano sepolti per sempre nella oscurità perenne delle miniere, ma per loro erano precluse onoranze funebri e perfino, insiste il teschio della canzone, un semplice rintocco di campana! La pietas verso i defunti non è assente nella classicità e oltre ad essere invocata è non raramente riservata perfino ai nemici: in effetti segnala un passaggio cruciale nell'affermazione di una condizione che siamo soliti definire civiltà”.
“La voce del teschio - sottolinea ancora Francesco Meli - implora che qualcuno riservi anche a lui questa pietas, affinché una degna sepoltura, accompagnata da un’onoranza funebre che lo possa degnamente accompagnare nell’aldilà sia in grado di riscattare i suoi peccati e garantirgli una pace eterna dopo un’esistenza di stenti, contrassegnata da un lavoro massacrante in un’oscurità permanente...".

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Il testo poetico della canzone viene recuperato guarda caso da un minatore.
Come divenne noto?
La canzone fu composta su testo popolare da un musicista agrigentino, grazie a un’esplicita richiesta del genovese Pietro Germi.

Nel film "Il cammino della speranza" Germi utilizza "Vitti na crozza" come colonna sonora attribuendogli una generica potestà popolare.
In realtà il motivo, riprodotto in migliaia di dischi, ha un autore.
Si chiama Franco Li Causi, direttore di una piccola orchestra agrigentina e solista di chitarra. Questi racconta che nel 1950 il regista gli chiese se, nel suo repertorio di canzoni siciliane, ci fosse un motivo "allegro-tragico-sentimentale" da inserire in un film sugli emigrati siciliani. Le composizioni del musicista però non piacquero al regista che, comunque, invitò il maestro sul set a Favara.
In quell’occasione un anziano minatore, Giuseppe Cibardo Bisaccia, recitò al regista un brano poetico che conosceva a memoria e Germi chiese a Li Causi di musicare quei versi.
La canzone nasce così!. Sul set di un film, grazie all’incontro di una poesia recitata a memoria da un minatore e con l’orchestrazione che ne fa Li Causi.
Ma questa paternità non sarà riconosciuta a quest’ultimo, nonostante il maestro agrigentino avesse inviato subito la composizione in deposito SIAE.

Nella foto di copertina, di Luigi Nifosì, Gianna Nannini, che nei suoi concerti ha interpretato Vitti na crozza, in un interno di Scicli. 


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