Cultura Scicli

Sulle rotte del Cristo di Burgos

Una leggenda, un quadro



Scicli - Nella chiesa di San Giovanni Evangelista a Scicli è esposto un dipinto del Cristo di Burgos di fine Seicento. Si tratta di una iconografia della quale sono state realizzate, tra XVI e XX secolo, decine di riproduzioni sparse in diverse parti del mondo, a testimonianza dell’intensità e della diffusione di questo culto. Quella di Scicli, però, rappresenta forse l’unico dipinto esistente nel Meridione d’Italia. Ma quali furono le vicende che lo portarono nell’estremo sud della Sicilia africana? E su quali rotte viaggiò il dipinto? Con la storia che vi racconteremo cercheremo di rispondere a queste domande.

Alle origini, una leggenda
La nostra storia inizia con una leggenda.
Una mattina di un giorno imprecisato del 1308, su una nave proveniente dal Mare del Nord, un mercante spagnolo, terrorizzato, prega e chiede perdono per i suoi peccati. Per tre giorni e tre notti la nave era stata in balìa di una tremenda tempesta e solo adesso, finalmente, stava veleggiando, salva, verso le coste della Biscaglia.
Il mercante era partito da Burgos, in Castiglia, per condurre i suoi affari nelle Fiandre, ma la mercatura non era, certo, la sua unica occupazione: una grande religiosità pervadeva il suo spirito (del resto abitava in una delle tappe più importanti lungo il Cammino di Santiago di Compostela) e lo legava in maniera particolare al convento di Sant’Agostino, fuori le mura della città. Per questo, prima di partire, i frati agostiniani gli avevano promesso di pregare per lui; e il mercante, in cambio, aveva promesso loro di riportare dalle Fiandre un dono al convento.
Gli affari erano andati molto bene, e forse era stato proprio questo a fargli dimenticare la promessa: con sé, adesso, non aveva nulla da donare ai frati agostiniani. Di ciò se n’era ricordato in mezzo alla tempesta, maledicendo se stesso e la sua stolta dimenticanza.
Mentre il nostro mercante è in preghiera, tra le onde del mare appare un oggetto. Dalla nave salpa una piccola barca che ritorna indietro con una cassa, dentro la quale ve n’è un’altra, di vetro, contenente un Cristo con le mani incrociate sul petto, come se fosse stato riposto dentro un sepolcro.
Per il mercante è un segno di Dio, l’occasione per espiare la sua dimenticanza. Chiede ed ottiene di acquistare la cassa, divide i suoi guadagni tra tutti gli occupanti della nave e, quando ritorna a Burgos, dona il Cristo ai frati agostiniani, che lo collocano su una croce sistemata in una degna cappella. Da allora inizia il culto del “Cristo di Sant’Agostino”.
La statua era impressionante, ma allo stesso tempo meravigliosa. Le membra del Cristo sofferente, rivestite in cuoio, erano morbide come quelle di un corpo vero, così come vere sembravano essere le unghie e i capelli. A renderla ancora più realistica, le giunture delle braccia e dei piedi si muovevano, così come quelle delle dita, e la testa reclinata poteva essere voltata, proprio come quella di un uomo morto. Il Cristo martoriato era nudo, tranne i fianchi e le gambe, coperte fino alle ginocchia da un panno antico rimasto incorrotto.
Era un’opera bellissima, e i fedeli non esitarono ad attribuirla a Nicodemo, il discepolo di Gesù: del resto, anche la leggenda del suo crocifisso (il Volto Santo di Lucca) raccontava che questo era arrivato su un naviglio, privo di equipaggio, abbandonato in balìa dei venti e giunto, per grazia divina, a destinazione.
Da quel giorno, quindi, il Cristo di Sant’Agostino rimase a Burgos e, col nome di Cristo di Burgos (ma dai fedeli venne chiamato anche in altri modi: il Cristo con la gonna o “El Santo Cristo de las enagüillas” o, ancora, il Santo Cristo de Cabrilla), divenne ben presto oggetto di culto e fonte di miracoli. Semplici fedeli, ma anche santi e regnanti, giunsero da tutta la Spagna per venerarlo. Come la regina Isabella di Castiglia, che rischiò quasi di morire dallo spavento allorquando, accarezzata la statua, questa si mosse all’improvviso. O come quel fedele francese che, alla fine della messa, senza essere visto, saltò sull’altare e, con un morso, rubò al Cristo un dito del piede e se lo portò in Francia per farne una “reliquia” miracolosa. Fu proprio per nascondere questa mutilazione che un altro mercante donò ai frati agostiniani tre preziosa uova di struzzo portate con sé dalla lontana Africa. Queste vennero collocate davanti ai piedi della statua, come pietoso velo ma anche come emblema del Salvatore o simbolo del Santo Sepolcro: come lo struzzo faceva schiudere le proprie uova e liberava i suoi piccoli spargendovi sopra il sangue del proprio corpo, così il Cristo Salvatore, spargendo il proprio sangue, aveva liberato il genere umano.

Dipinti e immagini del Cristo di Burgos
Il culto del Cristo di Burgos si diffuse rapidamente in tutta la Spagna e, grazie all’opera di evangelizzazione degli Agostiniani, in tutto il mondo conosciuto. Già all’inizio del Seicento la statua venne riprodotta in diverse incisioni e in decine di dipinti sparsi nella penisola iberica (dalla Castiglia alla Navarra fino all’Andalusia) e nei più sperduti angoli della monarchia iberica (dal Messico al Perù fino alle Filippine). Solo uno di questi dipinti, per le ragioni che spiegheremo, giungerà a Scicli, in Sicilia, a quel tempo parte integrante del Regno di Spagna.
Fra i modelli iconografici, particolare successo ebbe quello realizzato nei decenni centrali del Seicento da Mateo Cerezo el Viejo, padre del più celebre Cerezo el Joven e autore di un’immagine del Cristo di Burgos riprodotta da decine di suoi allievi o imitatori, più o meno anonimi. Tra questi vi fu Joan a Palazín (o Palacín), artista quasi sconosciuto, attivo, tra fine Seicento e inizio Settecento, nella regione di Medina del Campo, paese della Castiglia nella provincia di Valladolid.
Di Palazín conosciamo due dipinti “gemelli” del Cristo di Burgos: uno, più grande, attualmente custodito nell’eremo di “Nuestra Señora del Amparo” a Medina del Campo; l’altro (il nostro quadro) oggi esposto nella chiesa di San Giovanni Evangelista a Scicli. Nel dipingere entrambi, Palazín utilizzò il modello “cereziano”, riproducendolo dall’impostazione generale fino alla fattura della firma.
Possiamo, allora, spostarci nel tempo e immaginare il pittore mentre esegue gli ultimi ritocchi al nostro Cristo di Burgos. Un chiaroscuro drammatico, tipico del tenebrismo spagnolo, fa da sfondo al quadro: una scena buia, quasi nera, dove a stento è possibile scorgere una croce sopra quelle che sembrano delle nuvole su un monte (quindi il Calvario). Sulla croce è Gesù, ormai spirante, illuminato da una luce che ne disegna, in chiaroscuro, il corpo martoriato. Il Cristo è nudo: solo un panno bianco, impreziosito da una fascia di merletto, lo copre dai fianchi fin quasi alle caviglie. La testa è reclinata, il capo coronato di spine. Sul viso, gli occhi sono ormai quasi chiusi. Le mani, aperte, sono trafitte da chiodi; le braccia e il torace coperti di ferite e di gocce di sudore e sangue. E, infine, il costato, deturpato e offeso da un taglio da cui sgorga, copioso, un fiotto sanguinolento.
I piedi, uniti, sono trafitti da un chiodo al quale è appeso un uovo di struzzo. Sopra l’uovo, due misteriose sfere di metallo: secondo alcuni le teste dei chiodi che, col passare del tempo, erano state disegnate in maniera sempre più voluminosa. Secondo altri, invece, si trattava delle altre uova presenti ai piedi della statua di Burgos. Ma non poteva anche essere un riferimento alle due ampolle contenenti il sangue di Cristo poste accanto al Crocifisso di Nicodemo? O le “sfere” (di terra e di acqua, celesti e terrestri…) sulle quali Sant’Agostino e i suoi seguaci tante volte avevano dissertato? Il mistero ne avvolge ancora la natura e la simbologia.
Possiamo, infine, immaginare il nostro pittore mentre appone la firma (oggi quasi illeggibile) ai piedi della croce, sotto l’uovo di struzzo: lento, il pennello traccia il nome e alla fine disegna un elegante svolazzo calligrafico, tanto simile a quello di Cerezo. Dopo la firma, la data: 1695.
Il dipinto è pronto. E la nostra storia continua.

Dal Regno di Castiglia al Regno di Sicilia
Quali furono le vicende che portarono il nostro quadro dalla Castiglia fino in Sicilia?
Qui inizia un’altra storia, e questa volta non è un mercante ma, probabilmente, un nobile spagnolo a portare con sé a Scicli la sacra immagine del Cristo. Il suo nome era Domingo de Cerratón ed era nato nel 1658 a Villanasur, uno dei villaggi di Burgos. Da ragazzo era entrato come paggio alla corte del VII Duca di Veragua, Pedro Manuel Colón de Portugal (uno dei discendenti di Cristoforo Colombo) e ben presto si era guadagnato la fiducia e la stima del Duca che gli aveva conferito il prestigioso incarico di Maggiordomo. Con questo incarico Cerratón aveva seguito Veragua in tutti i suoi spostamenti: quando il Duca era diventato Vicerè, si era trasferito con lui a Valenza (e qui aveva conosciuto l’amore della sua vita, Donna Tereza Izco Quincoces, che era diventata a sua volta damigella della Duchessa); quando Veragua era stato nominato Generale delle Galere di Spagna, aveva navigato su e giù per il Mediterraneo (e dopo l’assedio di Orano e la conquista di Mazalquivir il Duca lo aveva addirittura nominato Capitano); infine, era giunto a Palermo, dopo che il suo signore era diventato Viceré di Sicilia, nel maggio del 1696, lo stesso anno in cui Domingo era entrato nell’Ordine di Santiago. Una carriera prestigiosa, per un uomo capace e di fervente spirito religioso.
Con il suo Duca, Cerratón resta a Palermo diversi anni, fin quando, nel 1701, Veragua termina il suo incarico e va via dalla Sicilia. Questa volta Domingo, però, non lo segue: ormai era comandante della Sargenzia di Scicli, una delle dieci piazze d’armi del Regno. Da lui dipendeva militarmente quasi tutta la Sicilia sud-orientale: un incarico delicato, in un momento in cui l’isola si avviava a diventare uno dei centri nevralgici della Guerra di Successione spagnola.
Quando arriva a Scicli, Domingo ha più o meno 40 anni; sua moglie Tereza quindici in meno di lui. Con loro giungono anche il figlio Pedro, nato a Cartagena nel 1692, e una figlia ancora piccola, nata nel 1699 a Palermo e, per questo, chiamata Rosalia. Tra le proprie cose (vestiti, mobili, gioielli…) probabilmente portano con sé anche il dipinto del Cristo di Burgos.
A Scicli i Cerratón si ambientano subito. Non solo stringono rapporti con tutte le famiglie del Contado ma, grazie alla loro fervente devozione, contribuiscono alla crescita religiosa della comunità con lasciti e donazioni. Una vita felice, la loro, che però all’improvviso viene sconvolta da una tragedia: nel 1708 entrambi i figli (il grande, di 16 anni; la piccola di 9) muoiono, insieme, di “febbre maligna” e vengono sepolti nella Chiesa del Convento del Carmine, laddove ancora oggi è possibile vederne le lapidi.
I genitori ne sono sconvolti, e vivono angosciati da questo dolore fin quando la morte non li raggiunge. Domingo viene a mancare due anni dopo, e viene sepolto accanto ai figli. Donna Tereza, invece, si fa suora, continuando a elargire le sue elemosine e le sue donazioni. Molte di queste verranno concesse al Monastero delle monache benedettine di San Giovanni: non solo soldi e generi di prima necessità, ma anche drappi di seta e “tele colorite” di diversi pittori.
Tra queste tele vi fu anche il nostro Cristo di Burgos, che nel lungo peregrinare, è infine giunto al suo ultimo approdo.

Tra le monache di Maria Crocifissa, la Santa dei Tomasi di Lampedusa
Il Cristo di Burgos viene, così, donato alle monache benedettine, che in quegli anni erano guidate da Suor Maria Teodoreta e dalla sciclitana Suor Maria Cecilia: furono sicuramente loro ad accettare il dono di Donna Tereza e a collocarlo in una delle stanze del monastero o in una delle cappelle della Chiesa di San Giovanni.
Probabilmente, il cenobio benedettino fu uno dei luoghi più adatti ad ospitare la sacra immagine. Il monastero era stato fondato a metà Seicento da una ricca nobile sciclitana, Donna Giovanna Di Stefano, che aveva fatto costruire un grande edificio nel quale, nel 1687, erano giunte da Palma di Montechiaro due monache “maestre di spirito” con il compito di avviare la nuova comunità: Suor Maria della Concezione e la già ricordata Suor Maria Teodoreta. Entrambe erano discepole di Suor Maria Crocifissa, la Santa dei Tomasi di Lampedusa (tre secoli dopo ricordata dal celebre scrittore Giuseppe, suo discendente, come “la Beata Corbera” nel romanzo Il Gattopardo). Una Santa particolarmente devota a Gesù Crocifisso, fulcro della vita spirituale sua e delle sue adepte. A una di queste, ad esempio, scriverà nel 1679: “Ecco qui ogni diletta, sola con il suo sposo: un Crocifisso morto, la di cui lacera pelle tiene tanti buchi… Tutta assorta, e rapita da questi buchi, vedrà che cosa è Dio.” Non era, forse, l’Ordine di Suor Maria Crocifissa il luogo migliore per custodire il nostro Cristo di Burgos?
Tra la monache benedettine il dipinto rimase per oltre un secolo e mezzo. Nel 1866 il monastero venne incamerato dal Regno d’Italia e, all’inizio del Novecento, venne “cancellato” e sostituito con il nuovo Palazzo di Città. Il Cristo di Burgos venne relegato nella sacrestia della chiesa, appeso a una parete e lì dimenticato.
Solo più di un secolo dopo le mani pietose di un parroco appassionato d’arte lo hanno restituito allo sguardo dei fedeli, collocandolo in un altare della chiesa di San Giovanni. Qui, oggi, ognuno di noi lo può contemplare, rivolgendo ad esso il proprio sguardo curioso o la propria anima in pena. Così come hanno fatto, nel tempo, Juan de Palazín e Domingo de Cerratón, Donna Tereza e i poveri Pedro e Rosalia, Suor Maria Teodoreta e Suor Maria Cecilia… e tutti gli attori che hanno recitato sul palcoscenico della nostra storia. E su quello della loro vita.

https://www.ragusanews.com/immagini_banner/1741718155-3-hyundai.png

Cenni bibliografici
La leggenda del rinvenimento della statua del Cristo di Burgos è tratta dal Libro de los milagros del Santo Crucifijo de San Agustín de la Ciudad de Burgos, Burgos 1622. Sul significato simbolico dell’uovo di struzzo abbiamo consultato Louis Charbonneau-Lassay, Le Bestiaire du Christ, Bruges 1940.
L’attribuzione del dipinto a Juan de Palazín è di René Jesus Payo Hernanz, storico dell’arte dell’Università di Burgos, ed è stata possibile grazie a uno studio sulla firma condotto dal sottoscritto con la collaborazione tecnica di Luigi Nifosì. Sul Cristo di Burgos custodito a Medina del Campo si veda il Catalogo monumental. Medina del Campo, Valladolid 2004, p. 208.
Il dipinto del Cristo di Burgos di Scicli è stato segnalato per la prima volta da Paolo Nifosì in Scicli. Una via tardobarocca, Scicli 1988. La firma sul dipinto è stata individuata dai restauratori Piero Fresta e Giovanna Comes durante il restauro effettuato alla fine degli anni Novanta. A mettere in rapporto il dipinto di Scicli con Mateo Cerezo el Viejo è stato Francesco Pellegrino in Il Santo Cristo di Burgos: invenzione di una iconografia, www.ragusanews.com 2013.
Il collegamento tra il dipinto del Cristo di Burgos di Scicli e Domingo de Cerratón è stato fatto da Francesco Pellegrino in Domingo de Cerratón (www.ragusanews.com , 2013) e da don Ignazio La China in Domingo de Cerratón e la moglie Teresa: due benefattori di Scicli sconosciuti (http://catholicaforma.blogspot.it/, 2013).
Sul monastero benedettino di San Giovanni Evangelista si veda il manoscritto settecentesco di Antonio Carioti, Notizie storiche della città di Scicli, a cura di M. Cataudella, Scicli 1994 (pp. 460-462) e il manoscritto ottocentesco di Giovanni Pacetto, Memorie istoriche civili ed ecclesiastiche della città di Scicli, a cura di A. Sparacino, Rosolini 2009 (pp. 287-290).
Il parroco appassionato d’arte citato nell’articolo è Don Paolo Ruta (1931-2011).
Ringrazio Don Antonio Sparacino per aver concesso il permesso di fotografare la firma sul dipinto. Un ringraziamento va anche alla Direttrice del Museo di Burgos, Marta Negro Cobo, per avermi gentilmente messo in contatto con il prof. Payo Hernanz.


© Riproduzione riservata