Non si può vincere la morte non morendo, mentre si può vivere la propria vita nell'allegra consapevolezza: che la morte l'abbiamo sconfitta nascendo.
È una temporanea sconfitta.
È una momentanea vittoria. Una vittoria a termine, a tempo.
Poi torneremo, forzati, all’inizio.
Perché in tutte le cose c'è un inizio e una fine?
E soprattutto, perché la fine ha sempre una strana somiglianza con l'inizio?
È come se la natura si preoccupasse di voler terminare ogni volta un ciclo, in cui però la fine non è esattamente identica all'inizio.
È come se la coincidenza approssimata, relativa, dell'inizio con la fine, volesse indicare che con quell'inizio si è appunto concluso "un" ciclo, al punto che non potrà più essercene un altro nelle stesse identiche condizioni.
Perché – a differenza del mondo animale - questo processo è per l'essere umano così peculiare, così caratteristico? Il motivo forse risiede nel fatto che nello spazio intermedio che separa l'inizio dalla fine, l'essere umano si gioca tutte le possibili forme della propria libertà. Cioè, all'essere umano è stata data la facoltà di scelta e quindi la cognizione di dover fare la scelta migliore, quella più conforme alla sua natura originaria.
La morte ha qualcosa di paradossale: pur essendo uno dei momenti più significativi nella vita di una persona, perché la conclude e perché intorno ad essa il pensiero ha elaborato riflessioni e rappresentazioni a non finire, non è traducibile in alcuna esperienza.
Ai fini di un'esperienza di vita è - in tal senso - molto più importante il dolore, anche perché di questo noi possiamo conservare un ricordo, che poi può servirci per sopportare meglio il dolore la volta successiva.
Il dolore ci fortifica. La morte ci distrugge o - se vogliamo - ci libera dal peso di un dolore insopportabile - vero o immaginario che sia - sempre che la morte sia, per così dire, "naturale" e non ci colga di sorpresa.
Noi possiamo avere esperienza solo della morte altrui, che ci addolora in misura proporzionale ai sentimenti provati per quella persona in vita. Il motivo per cui non riusciamo ad accettare la morte, è dovuto al fatto che per istinto rifiutiamo l'idea che ci venga a mancare una persona amata. Altri motivi sono più astratti: ci chiediamo, per esempio, che senso abbia la morte di un bambino o la morte di un adulto che dalla vita non ha ottenuto che dolori?
Nel momento dello spegnimento della vita di una persona amata, si rivolge la continuità attingendo dalla memoria, tutto ciò che la poteva rappresentare.
Subito all’istante dopo l’ultimo respiro, si avvia la penosa ricerca per trattenere le tracce del ricordo. Le fotografie, i libri, i vestiti, ogni segno di attività e passioni.
Sulla mensola in camera, centinaia di foto: raccolte in buste scolorite di carta riciclata, attaccate alle nere pagine di album incurvati. Altre, impilate in ordine nei cassetti. Dal modo di conservarle, si capiva non le guardava mai, probabilmente non ricordava nemmeno che esistessero. Un album molto grande, con una logora legatura di tela grezza in copertina: le foto da bambina.
Per tutti quanti hanno subito un grande lutto, il ritorno a casa, dopo la cerimonia funebre, è soffermarsi su quelle foto, in una trance quasi maniacale. Per trovarle irresistibili, preziose, pari a sacre reliquie. Sembravano doverci dire cose che non avevamo mai saputo, rivelarci verità nascoste. Le esaminiamo febbrilmente una per una, assimilandone i minimi dettagli, le ombre più insignificanti, finché tutte le immagini divengono parte di noi nel ricordo della persona scomparsa. Vogliamo che nulla venga perso!
Gran parte delle foto, non ci dicono nulla di nuovo, ma ci aiutano a colmare lacune, a confermare impressioni, a fornire prove dove non ne esistevano. Tutto ciò che era quella persona amata come sostituto, diventa rappresentativo di una perdita.
I libri: significativi di interessi, predilezioni, differenze, specificità di pensiero. I titoli particolari, fin anche le sottolineature per dare valore, diverso dal consueto, nella scelta a frasi e avvenimenti narrati, non certo nostri.
Armadi pieni di vestiti che nessuno indosserà più, non saranno più riempiti e neppure portati. Segni di passate vitalità, non più possibili.
Tutto un mondo lascia chi va via. Un mondo che spesso dopo, alcune volte progressivamente con rispetto e cura, pian piano meglio si conosce, si penetra, si capisce!
Quando una persona cara ci lascia, si subisce come l’amputazione di un arto. In questo caso o il moncone si cicatrizza o la persona muore. Se si cicatrizza, il dolore atroce e incessante finirà. Il paziente dopo qualche tempo ritroverà le forze e sarà in grado di muovere i primi passi sulla sua gamba di legno. Ne sarà “venuto fuori”. Ma per tutta la vita, probabilmente, il moncone ogni tanto gli farà male, forse anche molto male; e lui sarà sempre un uomo con una gamba sola. Non avrà modo di dimenticarlo. Tutto sarà diverso: fare il bagno, vestirsi, sedersi e alzarsi in piedi, persino stare a letto. Tutto il suo modo di vivere sarà trasformato. Dovrà dire addio a diverse attività che prima dava per scontate. E anche a certi doveri. All’inizio impara a muoversi con le stampelle. Poi dopo un po’ gli daranno una gamba di legno. Ma bipede: non lo sarà mai più.
Il momento del distacco segna il nostro tempo. E lo farà per sempre. Suddivide la nostra storia di vita tra tutto ciò che è stato prima del lutto e tutto il resto che verrà e sarà dopo. Come un crinale spartisce le due valli, così quell’evento è misura del nostro tempo e per ricordare altri accadimenti della nostra vita, a quella perdita ci si riferisce. Perchè flesso tagliente della nostra esistenza. Poi, delle volte tanto tempo dopo, il ricordo della persona scomparsa: allarga un bonario sorriso e gli occhi gonfia di pianto.
Credo esistono due tipi di sofferenza legati alla morte e al separarsi.
La sofferenza di chi vive, la sofferenza di chi muore.
La sofferenza di chi vive, è provocata dal pensiero di dover morire, del non sapere quando o non sapere cosa succede dopo e soprattutto dal pensare che la morte sia la fine di tutto. L'esperienza di chi resta vivo di fronte alla morte, sono infinità di ricordi di vita vissuta, sensazioni e percezioni. Il ricordo di una voce assente, impronte di una vita insieme rinfocolate dall'assenza.
Spesso – nel nostro, abituale, inconsapevole egoismo - non si rimpiangono le persone per quello che erano per noi, quanto per quello che eravamo noi con loro accanto. Avevamo forse basato la nostra serenità sulla loro presenza e ora senza di loro soffriamo perché ci sentiamo persi? Continuiamo a muoverci in funzione della persona ormai assente e non riusciamo ad agire, ad elaborare il dolore.
Può accadere questo, quando si basa la nostra felicità sulla presenza di altre persone: che l'assenza ci devasti. Spesso così si vive senza saperlo, per accorgersene quando ci separiamo.
Se la morte di un essere umano fosse qualcosa di assolutamente sconvolgente, le sue conseguenze sarebbero irreparabili. Invece … la vita continua. Per una crudele e strana inerzia, ruzzola la biglia della vita di ognuno. Prima con fatica. Poi scorre un’ora dopo l’altra, un giorno appresso all’altro. Questa stessa espressione generica "la vita continua", la intendiamo in riferimento a quella terrestre; in realtà dovremmo intenderla in riferimento alla vita in generale, quella - per intendersi - dell'universo, di cui la terra è parte e di cui, in fondo, gli esseri umani sanno ancora molto poco.
"La vita continua" è un'espressione metafisica, che va al di là dell'apparenza. La vita continua "per tutti", così andrebbe interpretata. Cioè la vita è un concetto che include la morte e che caratterizza l'intero universo. La morte, dunque, è solo trasformazione.
Altrove ho scritto della morte come la figura, la posa ultima della danza vita. La morte fa parte della vita, quindi, nel senso che ne è un aspetto fondamentale, imprescindibile. La morte dà addirittura significato alla vita, poiché una vita senza morte non sarebbe umana o terrestre, non apparterrebbe neppure all'universo.
La vita e la morte sono aspetti naturali che andrebbero vissuti in maniera naturale, secondo le leggi della natura. E nella natura la morte, in realtà, non esiste se non come forma di passaggio. La morte – per chi è credente - è l'anticamera di una nuova vita. Tutto è trasformazione. Vita e morte fanno parte di un immane processo di trasformazione, di cui noi non vediamo né l'inizio, né la fine.
La consapevolezza di questo dovrebbe portarci a relativizzare le questioni personali, i limiti soggettivi. Ognuno di noi fa parte di una specie particolare e al tempo stesso universale: il genere umano.
Ciò che conta in realtà non è né la vita, né la morte, ma la dignità dell'essere umano, l'essenza della sua umanità. Vita e morte coincidono quando è in gioco la difesa del valore del senso di umanità. Aver paura della morte - quando è in gioco questo valore - significa non saperlo vivere con coerenza, sino in fondo.
L'unica cosa di cui bisogna aver paura, è proprio questa incapacità a essere naturali, a vivere con naturalezza la propria umanità.
La morte: sottrae la persona dal suo corpo.
In vita, persona e corpo sono sinonimi; in morte, c'è la persona e c'è il suo corpo.
Il corpo è un involucro soggetto a decomporsi: quando si comincia ad avere consapevolezza di questo, si comincia anche a desiderare di vivere una nuova condizione. Questo processo evolutivo può essere facilmente applicato alla storia di tutte le civiltà. Andata via la vita, il corpo è materia inutile. Involucro sprovvisto di quei tanti sensi che in vita gli abbiamo attribuito. Nessuna carica emotiva legata alla nostra affezione con la persona il corpo mantiene, perché tutto custodito nei ripari della nostra memoria dell’anima.
Può la materialità - sfacciatamente mostrata - rappresentare il ricordo intimo della persona amata non più con noi? Può un’opera edilizia, essere portatrice di quei sentimenti personali e inconfessati che ci legavano ad un caro congiunto? La manifestazioni plateali e disgustose del lutto, andrebbero evitate e spero sempre finiscano. Il rapporto con una persona amata, non si interrompe e non si può rappresentare, è un sentimento prezioso che abita dentro di noi e fa vivere la persona: finché quel sentimento vive in noi. Sotto i monumenti di pregiato marmo: non c’è niente di quanto cerchiamo. Le esteriorità opulente del lutto, non sono misura d’amore o di affetto verso chi non c’è più. Sono, piuttosto, una ordinaria esternazione per condizionamenti, dalla società imposti e che nulla hanno a che fare con quel pacificante sentimento della memoria, che ci sorregge nel nostro - anche claudicante - cammino.
Ellj Nolbia
La fotografia è una ripresa del cimitero di Pozzallo.
ph Ellj Nolbia 1997