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La Vergine Addolorata. Storia, memoria, fede e leggenda

Una Madonna spoglia di inutili e sacrileghi orpelli

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La leggenda vuole che la statua di Maria, Vergine Addolorata, fosse rinvenuta da un milite della guarnigione di Ruggiero lasciata a presidio del Castello di Scicli. La storia testimonia che nel quattrocento la Vergine a Scicli fosse molto venerata, meta di pellegrini di ritorno dalla Terra Santa, e di devoti provenienti da tutto il val di Noto. Una Madonna spoglia di inutili e sacrileghi orpelli, una Madre che canta un’antica preghiera siciliana al proprio figlio. Dalle incantevoli parole di Un Uomo Libero il racconto.

Socrathe

 

 

La Vergine Addolorata

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Storia, Memoria, Fede e Leggenda

Di: Un Uomo Libero

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Fu un giorno di settembre. Per caso mi trovavo in chiesa. Degli uomini della Confraternita si davano da fare per trasferire dalla nicchia all’altare maggiore il simulacro della Vergine Addolorata. Avevano chiuso la chiesa. Mi sedetti in un banco ed aspettai. Con una processione silenziosa, portata a spalla da alcune donne, mi apparve così l’Addolorata,  tra la luce colorata e rarefatta delle vetrate, solenne e desolata. Dovevano trascorrere tanti anni della mia vita prima che scoprissi un’immagine, un volto che mai avevo veramente potuto osservare da vicino. Da bambino mia madre, come usava per   tutti i bambini della città, mi aveva spesso portato il venerdì a Santa Maria la Nova. Per affidarmi alla Vergine, per implorare la Sua protezione, per chiedere le grazie necessarie a una vita che presentava difficoltà e problemi. Erano visite che mal tolleravo, che non riuscivo a capire. Il nero degli abiti; la postura solenne specialmente delle Marie, che erano quelle che più sapevo distinguere; il piccolo crocefisso deposto, rannicchiato sulle sue ginocchia di donna seduta in prossimità della croce, straordinariamente sfigurato nel volto e nelle carni, dall’occhio vitreo e spento, mi procuravano raccapriccio e timore. Fissavano nella mia memoria la plastica drammaticità della morte. Più tardi, contemplando in San Pietro la Pietà michelangiolesca, mi ricordai di questa strana sensazione, di questo disagio. Ma il volto di quella donna non era il volto della donna che io ricordavo ai piedi di una croce d’argento, rivestita di panni neri. Quel volto era molto diverso. Disteso, giovane, rassegnato alle parole delle scritture, ostentava il frutto di un seno travolto dal mistero di Dio.

La vidi avvicinarsi, lentamente, non fatta di legno dipinto ma viva, barcollando sulle spalle delle portatrici. Raccolta, quasi piegata, abbandonata ad una sofferenza muta. Gli occhi sigillati da un’ultima lacrima. Spoglia di tutti gli orpelli di cui, inutilmente, l’aveva ricoperta l’ignorante cupidigia degli uomini. Arresa, anche Lei, come l’Altra,  al mistero ineluttabile e inconcepibile del divino. Il mantello bizantineggiante le conferiva un’eleganza tutta orientale ed il volto sciupato e smunto era quello, anche stavolta, di una giovane donna. Il tempio mi apparve completo, riempito di una luce nuova. Riempito della presenza di Lei, icona vera e venerabile di tutte le madri ai piedi della croce, di tutte le croci del mondo.

Un turbinio di leggende e di storia stringeva nel pugno chiuso. Un segreto che nessuno ha penetrato mai. Come giunse a noi, mi domandai? La pia tradizione racconta di un lungo sotterramento nella “cavuzza”, al lato della chiesa, per sottrarla alla furia iconoclasta o forse all’empio fanatismo saraceno. Resta il fatto che la scomparsa del simulacro non spense l’antica devozione del popolo. Fu ritrovato, raccontano sempre le cronache, in un tempo di grazia e di perdono. Sono storie che si sono ripetute per secoli, in tutto il mondo cristiano. Ritrovamenti miracolosi, apparizioni in battaglie. Presenze necessarie per rinfocolare una fede vacillante e bambina, troppo spesso minata da altri credi o dal dubbio stesso della Riforma. Così la Vergine di Covadonga contro i musulmani infedeli, così la Vergine del Rosario nella battaglia di Lepanto, così la Vergine di Guadalupe, ritrovata in un fosso, in aperta campagna estremegna. Così la Vergine delle Milizie, rielaborazione dell’antico mito del Deus ex machina. Invocata come Vergine Addolorata dalle donne del castello di Scicli, accorse, in aiuto delle esigue schiere normanne, che per questo vinsero un esercito numeroso di saraceni, in una battaglia memorabile combattuta, nell’anno 1091, sulla spiaggia di Donnalucata.

Dovette apparire così a Guglielmo Cuffitella, naturale di Noto. Uomo buono e pio, Le consacrò più di metà della sua lunga vita. Fino all’ultimo momento della morte che lo colpì orante  e vecchissimo in quel venerdì santo di un aprile dell’anno del Signore 1404. Guglielmo trascinava, claudicante, sulle spalle ricurve, quella stessa croce che oggi, ricoperta di argento e di reliquie si accompagna in processione a tutto il “passo”. La aveva fatta fare a Noto. La portava, come una volta usavano i nazareni   sulle loro spalle, la domenica delle Palme, al Carmine dove si facevano le Quarant’ore, coinvolgendo tutto il popolo in un’adorazione devota,  alla presenza del simulacro della Vergine. Da qui, l’abitudine di portare tutto il “passo” in processione la domenica delle Palme.

Dovette apparire così anche a Corrado Confalonieri che la pia leggenda vuole in cammino da Noto a Scicli, per il voto estremo di raccomandare alla Vergine Addolorata la Sua anima.

Dovette apparire così anche al Venerabile Girolamo Terzo, mentre predicava la Quaresima in Santa Maria La Piazza. Una visione che ne scosse profondamente la fede e ne segnò per sempre la vita di religioso e di uomo. Per voto, da Noto, veniva pellegrino fino a Scicli e sostava ai suoi piedi in devota preghiera. In memoria di questa visione eresse il santuario di S. Maria Scala del paradiso, oggi sede estiva del seminario vescovile. In memoria di questa visione, durante la processione,  tuttora si intona lo “Stabat Mater” di fronte alla chiesa del Carmine.

Una devozione sentita soprattutto dalla gente umile.

Nel suo testamento Pietro di Lorenzo Busacca lasciò le sue ingentissime e misteriose fortune alla Vergine Addolorata, ai piedi della quale voleva riposare. Come usava disporre un tempo nel quale non esistevano loculi   e cimiteri ma solo sepolcri nelle chiese e fosse comuni sotto i loro sagrati.

Mi ricordai dei racconti di mia madre e mi commosse il pensiero che solo ora capivo la sua fede. “Fino a circa cinquant’anni fa, sai, -mi raccontava, quando ero più giovane- ogni venerdì di marzo, era costume in tutte le case della ‘cavuzza’ accendere la ‘lampa’. Un bicchiere di vetro con dentro un’emulsione di acqua ed olio d’oliva che bruciava, con l’aiuto di uno stoppino fatto di cotone, su una piccola base triangolare di sughero. Nell’ottocento si accendevano le “lumere”, tipiche lampade ad olio di terracotta. Le donne della cavuzza all’avemaria scioglievano i loro grembiuli neri. Li deponevano a terra ( uso musulmano resistente al tempo, purificato dalla tradizione cristiana). Vi si inginocchiavano e recitavano  per tre volte “ U Credu regalatu” cioè il credo regale, un’antichissima orazione in antico vernacolo, quella che io ti insegnai, bambino…” Mi accostai alla balaustra e, in ginocchio, come se il tempo non fosse mai passato, mi aggrappai alla Sua mano che mi ricordò tanto l’altra di mia madre e biascicai in silenzio, per un’irresistibile esigenza del sacro, il mio incredulo credo così come lo avevo appreso dalla bocca di mia madre. Una preghiera del cuore nella lingua del popolo perché salisse spontanea e vera a Lei, che tutto può. Perché ottenesse dal Figlio, quelle grazie necessarie  alla comunità per la quale si era  fatta  nei secoli, madre, protettrice e guerriera.

 

Si credu bellu vetu, mansu e piu

Cristu fìcja lu munnu e puoi a li genti

Tutta l’eternitati  ni ciurju

Ju criru nu Dìu Patri e Unniputenti.

 

E’ Unniputenti ‘pi l’Eternitati.

Ri nu jurnu ri jiuriziu ‘ni fa ‘beni.

Ri nìvuru si vesta la sa matri,

San Pietru ‘cu li chiavi ferma e scerma.

Aruramu ‘na stu càlici sagradu

st’arma ca à datu ‘Dju e ca si ‘ci arrenni,

‘ncieli c’è Figghju, Spirdussantu e Patri ( si fa un segno di croce)

criatùri di lu cielu e di la terra.

E di la terra n’avìmu lu cibbu,

e di lu cielu n’avìmu li trisora,

a cruna ri Maria fatta è ri stiddi,

è cummigghjata ‘cu lu mantu azzòra,

Tutti li santi ca préjunu a r’idda,

ri novi cora r’àngiuli ci vuonu

a st’Arma ca ‘ncielu sarà miatidda,

ùnicu Signuri So, lu So figghjuolu.

Lu So Figgjuòlu è lu veru ‘Missjia

e lu So nomu è ‘na li Padrinuostru

Cuannu a Gesusalemmi all’uortu ja

e prirricannu cu li So santi apuòstuli

vìttinu affacciari nu vìspisu jurìu

ca ja diciénnu ca stu viaggju è nuostru,

A Cristu, trenta rinàri lu vinnìju,

ùnicu Signuri so e Signuri nuostru.

 

Vui Santu Lici m’aviti a ajutàri,

fui siti justu l’abbucatu mìu,

tutti li santi nun m’anu abbannunàri,

‘ncielu m’assista la Matri ri ‘Dìu.

 

 


  Socrathe   La Discarica dei Benpensanti


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