Lettere in redazione Discorsi sul razzismo

Orgoglio Siciliano. Una lettera



Ovviamente il mio discorso è di parte, nel senso che uno come me, cresciuto nel mito di Michele Amari e del Gran Conte Ruggero, non può che guardare favorevolmente alle rappresentanze dei popoli nordafricani che si ritrovano oggi a calcare la nostra terra di nessuno.

Lo dico chiaramente: certi discorsi letti e sentiti in giro, in questi giorni, non fanno onore agli abitanti odierni della Trinacria. E non è neanche razzismo, non ci potrei mai credere, sarebbe quanto meno una scusa plausibile. Credo dipenda invece dalla solita vecchia disinformazione.

Non voglio ripetere cose già dette e ridette sin troppe volte, mi riferisco a quelle difese sulla base di una critica al metro popolare poco equilibrato nel giudicare i reati commessi da italiani in controparte a quelli di provenienza straniera. Avrei bisogno di più pagine di premessa atta a chiarire il mio pensiero, non positivo, su un certo tipo di giornalismo che indirizza, senza dubbio, tale giudizio popolare.

Anch’io, come la stragrande maggioranza della gente comune, dirò delle cose già dette, ma in misura minore e che, se solamente ricordate, forse potrebbero aiutare ad interpretare meglio il fenomeno. Parlo anche di quella puntina di orgoglio che dovremmo provare guardando quei volti, non troppo differenti dai nostri.

Qualcuno metterà subito le mani avanti dicendo che gli arabi di oggi non sono quelli del passato luminoso di ieri. Diranno che, va bene, probabilmente, se la poesia siciliana della corte di Federico è stata fortemente influenzata dai poeti arabi, anche l’intera e magnifica letteratura italiana affonda le sue radici in tali letterati musulmani; ma ciò non giustifica certi nefandi comportamenti di oggi.

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Mi diranno, con faccia che compatisce, che tutti sanno delle tante cose buone che gli arabi hanno lasciato nella nostra martoriata terra.

Tutto ciò è vero, come vero è che l’Italia, nel bene e nel male, non è l’Impero Romano e in Grecia non governa Pericle.

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Veniamo al dunque: più di due secoli di permanenza araba in Sicilia non è poco. Quel tanto che basta ad un popolo per metter radici sul territorio e generare figli, nipoti e pronipoti. Ciò significa, a mio avviso, che quando Federico II li fece deportare in massa verso Lucera o li costrinse comunque alla fuga, non di arabi si trattava ma di siciliani.

Così mi viene subito in mente un grande poeta siracusano, Ibn Hamdis, ed il suo commovente lamento mentre si apprestava a lasciare la sua terra dopo la conquista Normanna.

Questi erano siciliani, molto più di chi gli subentrava e tuttavia mai veramente considerati tali per vie delle origini musulmane.

Cos’è questa se non una diaspora, eppur taciuta dai nostri testi scolastici?

E cos’era la Sicilia per loro se non la terra promessa?

Si, terra promessa, perché così la intendevano e per questo reclamavano indipendenza dai musulmani d’Africa.

Ma si sa, la storia la fa chi vince!

Solo che oggi, noi persone progredite (?), che riconosciamo i nostri errori del passato e ce ne scusiamo pubblicamente, non possiamo fare a meno di considerare tali eventi nel guardare ciò che ci sta attorno. Non è possibile fare un raffronto? E perché no, se negli affari tra Chiesa e “La Sapienza” si tira ancora in ballo Galileo?

Voglio ricordare, infine, che l’emigrante non lo è mai per desiderio e che considerarlo parte di un popolo che ritorna potrebbe aiutare a sentirci vecchi amici che si rincontrano. 

Gaetano Celestre

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