Cultura Un Uomo Libero racconta

L'amore ai tempi della guerra. La fuitina



La leva obbligatoria, imposta dalle leggi del nuovo stato unitario, se privò da una parte la famiglia siciliana in genere e sciclitana in particolare delle necessarie braccia che le consentivano un'esistenza ai margini della sopravvivenza, dall'altra ebbe il merito, l'unico, d'iniziare una lenta opera di "omogeneizzazione" del Paese.

L'inaugurazione della ferrovia, avvenuta negli ultimi anni dell'Ottocento, collegava definitivamente zone come le nostre, perse nel sud più assolato e remoto dell'Italia, a un mondo civile europeo in fermento, a una nazione non ancora perfettamente definita. Il disegno dei vecchi patrioti di un'Italia libera dalle Alpi a Capo Passero, da Nizza a Fiume era ancora una lontana e felice utopia e lo resterà fino ai giorni nostri.


Si partiva per obbligo. Si partiva per fame. La strada dell'emigrazione era ormai aperta, lunga, misteriosa e irta di amare sorprese e di pericoli. La giovane Patria, economicamente in bolletta, non poteva restare insensibile al grido di dolore che si levava dai territori soggetti ancora all'antico e storico nemico, l 'Austria. Trento, Trieste, Fiume erano le mitiche frontiere del sogno. La guerra, scatenata dall'attentato di Sarajevo, aveva precipitato l'Italia in un'avventura.

Un grande eroismo la trasformò in un'epopea gloriosa a costo di un enorme contributo di sangue e di tante giovani vite. La vittoria ridisegnò gli assetti di un'Europa inquieta, agitata da ridondanti retoriche, da filosofie nuove, da un interesse sempre più intrigato e palese verso le nuove terre d'Oltremare.


La classe aristocratica e borghese considerava la modernità come se fosse il demonio. Incoraggiata da un clero bigotto, tradizionalista e complice. Rafforzata in questo sospetto da un vento rivoluzionario che presto spirerà anche dalle nostre parti con l'apparizione dei primi fasci dei lavoratori.

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I giovani di leva che passavano lunghi anni della loro esistenza in un nord già industrializzato ed evoluto mal si adattavano, al ritorno, alle regole e alle sudditanze imposte dal latifondo. Maturavano il desiderio di volersi affrancare dai vecchi padroni per un legittimo desiderio di possedere la terra.

Consapevoli della forza delle loro braccia, disadattati in un mondo che non era più il loro, tentavano spesso la fortuna su bastimenti carichi di speranze verso una patria nuova, ignota, meno ingrata. Napoli, Genova, Palermo furono i principali porti sulle cui banchine si riversarono fiumi di lacrime. Teatri disperati di addii definitivi, di famiglie lacerate. Gli emigranti spesso perivano a causa di epidemie durante la traversata stessa.

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I pochi superstiti che raggiungevano l'eldorado agognato presto si rendevano amaramente conto del malinteso che li aveva animati a fuggire. La libertà, inseguita, anelata, cercata anche col sacrificio della vita, l'uguaglianza sociale, il benessere economico erano ben lontani dalla conquista facile e si sarebbero fatti attendere non poco.

E l'amore? Come si viveva in quell'epoca di rivolgimenti sociali importanti e grandi affanni?

I primi anni del secolo furono particolarmente interessanti per Scicli. Spirava un vento nuovo che preannunciava stagioni di lotte, di dissidi, di rivendicazioni proletarie incoraggiate da spiriti illuminati e coraggiosi. La città era un aperto cantiere di opere pubbliche. Nel 1908 era presente tra noi il pastore Schirò. Nel 1913 aveva iniziato a pubblicare "Il Semplicista", un foglio quindicinale che voleva coniugare fede e politica, cristianesimo e socialismo. Fu un grande risveglio per le classi operaie deluse da un anarchismo inconcludente e teorico. Sarà un successo dilagante personale del Pastore metodista che riuscì ad agganciare le frange più estremiste del bracciantato sciclitano.


Caddero molti pregiudizi, si allentarono freni inibitori per una più libera circolazione delle idee e un rilassamento generale dei costumi.
Mio padre, figlio di quei tempi, mi raccontava di frequentissime incursioni giovanili in una casa chiusa situata alle pendici della rocca, sotto il duomo di San Matteo già privo del tetto e sconsacrato. Un quartiere abbandonato dalla presenza di Dio, superaffollato, degradato da un'umanità poverissima e sofferente.


Nelle notti d'estate le signorine disoccupate, cantando come sirene le canzoni in voga, squarciavano il silenzio della notte, appestato da miasmi che mal si combinavano con gli effluvi odorosi dei giardini. Le loro voci si udivano nella sottostante piazza Fontana per solleticare negli uomini, nei giovanotti soprattutto, il prurito di una sessualità allegra non repressa, concessa dietro un misero compenso. Lo sguardo ruffiano di una vecchia madama ammiccava ai corpi adolescenti con golosa sofferenza. Sceglieva spesso ragazze esperte e navigate per istruire opportunamente chi non dimostrasse un'età abbastanza adulta. "O malu futtitùri -arricuòrditi- ci fa sempri 'mpàcciu u pilu" (1) amava ripetere a conforto della sua vocazione missionaria. Erano veloci puntate realizzate con la complicità di una luna assente o dei lampioni spenti, rotti da chi voleva tutelare una privacy, il suo vizioso segreto.


Più tardi, negli anni trenta, il glorioso casino trovò una sistemazione onorevole e dignitosa fuori dall'abitato, in un posto appartato e discreto.


Fra la gente comune e povera, corna, fughe, intrecci di passioni, tutto avveniva in un modo spontaneo, diretto, quasi animalesco. Sotto gli sguardi distaccati e lontani di una borghesia e di un'aristocrazia anch'esse molto corrotte. Due modi di vivere paralleli che difficilmente s'incontravano. Il bel mondo aveva gusti enormemente sofisticati. Però entrambe le due società ripetevano gli stessi gesti, pativano le identiche sofferenze, vivevano un uguale delirio.


Nelle classi povere si "fuggiva" perché spesso non si potevano affrontare le spese di un matrimonio.


La classica "fujtìna" era a volte concordata tra le famiglie per tacitare il pettegolezzo del quartiere o tra la madre della ragazza e la ragazza stessa quando la povertà era così grande e non c'erano i soldi per approntare anche un piccolo e modesto "corredo".


Esistevano lunghe e illuminanti filastrocche al riguardo. Una delle più note era quella detta di "Ronna Amata tìngia a tanti" di cui propongo qui di seguito le strofe più interessanti.

Eccu ca la pinzàta m'aggjuvàu!
mancu parsa ca la fìci 'zìta...
Ora, 'pi fàlla chjù bella e chjù cumprìta
'pi forza quattru scépili àju a fàri


"Accurrìti amici, accurrìti cummàri,
vinìtimi, vinìtimi a cunfurtàri,
nca a scialaràta ri ma fìgghja si ni fuìju.
E ju ca la vulìa cumprimintàri!...

...........................................................................
E dopo la fujtìna, al terzo giorno:

(Il giovane)

-Sabbenarìca, pirdùnu ri vossìa
Quantu còsi fa fàri l'amùri!-


(Ronna Amata)

-Cuòmu vi prisintàti 'nfàcci a mìa,
barbànti, scjalaràtu e traritùri?
La ròbba l'àju ma nun v'avuògghju ràri
'pi lu mutìvu ca vi 'ni fuìstru...-


(Il giovane)

-Fuorsi ca màtri e fìgghja vi la riscurrìstru?
Se nun mi ràti a ròbba e li rinàri
vi làssu a fìgghja e tuòrnu a lu paìsi.-


(La ragazza al giovane)

-Ora ca m'avìstru 'n'all'ùgni
mi stàti fànnu agghjùttiri tutti sti cutugni...-


(Il giovane alla futura suocera)

-Lu nòmu vuòstru è Ronna Amàta tìngia a tanti
e jùstu jùstu avièvu a tìngiri a mìa?-


(Il giovane alla ragazza)

-Brutta rugnùsa ca la rùgna ampìcja
vattìnni cu ta matràstra ca ti fìcja!-   (2)



Un'altra filastrocca, diventata per alcuni suoi versi adagio popolare, raccontava le astuzie di una madre per convincere la figlia a compiere la fujtìna.

(La madre alle comari)

Ma fìgghja fìcja na cutra pizzi pizzi,
màncu nu pittùri  la putìa pittàri,
ròbba a dùrici a dùrici!
Nun vi rìcju i cumpriménti
ca 'ci fànu l'amìci e li pariénti.


..........................................................


Tuppi. Tuppi.

(La figlia alla madre)

-Sùgnu ju mamà.

(La madre alla figlia)
 
C'é nu picciuttéddu tantu eleganti
e tuttu chiddu c'avi a 'dìri
lu tena a ménti,
e vòli a tìa, figghja mìa, cuòmu so amànti.
Oggi iddu véna e ju mi 'ni vàju 'na zìa.
Se ti rìcja ri vasàriti, làssiti vasàri!
Se ti rìcja ri fuiratìnni,
fìgghja bédda nun lu fàri scappàri
pirchì abbìa ri chjàcchiri e pìnni
avìmu a accanzàri u marìtu senza 'nìnni!(3)


Il corteggiamento era lungo e complicato. Avveniva comunemente di notte "portando" una serenata (attùrnja = notturno). Esistevano delle vere e proprie orchestrine a tale scopo. Chitarre, mandolini, qualche violino e la luce complice di una luna ruffiana. Le serenate erano il mezzo attraverso il quale l'amante si dichiarava o faceva conoscere il suo particolare stato d'animo all'amata. Potevano essere "d'amore" e "di sdegno".

In un'epoca nella quale la donna andava in giro tutta coperta, quasi avvolta in una specie di burka, l'unica soluzione era affidare alla musica il messaggio del cuore. Se la serenata era ben accolta, la ragazza apriva il balcone (nel caso in cui la casa fosse soprelevata) o uno spioncino della porta nel caso di un'abitazione a piano terra e sorrideva ai musicanti, godendosi la canzone. Se la serenata non era gradita, poteva essere accolta con il lancio di acqua fredda o, nel peggiore dei casi, dell'urina accumulata nell'orinale.

Parole struggenti componevano le strofe delle canzoni delle antiche "attùrnje" cantate anche dalle ragazze mentre ricamavano i corredi nel "baglio" (o dietro le inferriate delle finestre delle case). Veri e propri capolavori di una poesia dialettale che sta lentamente scomparendo nel vortice di un pragmatismo moderno distante anni luce da quell'epoca.

Al tempo delle partenze per la leva obbligatoria:

Pàrtunu tutti e partìu l'amànti mìu,
a mìa sula sulìdda mi lassàu,
nun mi rìssa màncu bangjòrnu e mancu addìu,
mancu a li santi mi raccumannàu.
O sa iddu 'pi cuali stràta ca pigghjàu
e cuali terra ca lu arriparàu.
Nuddu lu ciàncja cuòmu lu ciàncju ju,
mancu sa màtri ca lu nutricàu! (4)


Testi di antiche serenate:

Frammento n.1

Arrisbìgghiti arrìsbìgghiti ca è juòrnu
nca lu tàntu rumìri ti fa dànnu,
accà c'è l'amanti tuòu 'na stu cuntuòrnu
'cu sona e 'cu biulìna e va cantànnu. (5)


Frammento n. 2

Chi àj amùri ca ciànci e ti lamiénti,
ca nòtti e juòrnu fai suspira e cànti?
...........................................................
nun sai la pena ranni ca si senti
cuannu l'amùri tuòu passa ravànti. (6)


Frammento n.3

Sàccju ri cértu ca ru suòru sìti
e tutti ruj na 'n liéttu vi curcàti
sàccju sicùru ca ròbba nun n'avìti
e di lu frìddu la nòtti trimàti.
Ma se fuòcu circàti e vuj vulìti
mi curcu 'na lu miénzu e vi scarfàti! (7)


Serenate di "sdegno"

Frammento n.4

Appi mannàta na lìttra ri Aci
léggja l'amànti tuòu e vìra 'chi dìci,
la lìttra va dicjénnu paci, paci,
paci nun vuòggju nò 'cu li 'nimìci.
Sapìti cuànnu ju vaju a pìgghju paci?
Cuannu l'acqua rò màri si fa arùci! (8)


Frammento n.5 (molto antico)

Curùzzu  'cu duj còra vuj jucàti
e v'arriguàrdu chi giurìzzju avìti.
Nun si tratta accussì cuòmu trattàti,
ri 'ncòri vuj ruj parti 'ni facìti.
Miatìdda sempri vuj ca sicutàti
e 'pi mìa fòrra vi ciéru la lìti.
A mìa sulu una còsa mi rispjàci,
ca ri ruj còra nissùnu 'ni avìti! (9)



Un ultimo frammento riguarda una delle tante canzoni che erano cantate da donne anziane durante la canicola estiva tra un rammendo e l'altro in cerchio con le comari del vicolo.

Frammento n.1

Finìu lu tiémpu ri li favi caljàti
cuànnu 'cu mìa ti purtàutu arùci.
Ora ca sìmu bèddi e maritàti
càuci e pùgna, se 'ni vuògghju, e vùci. (10)

U tièmpu ri li favi caljàti, appunto.

 
Quando non si ricorreva alla fujtìna, le nozze erano il traguardo più ambito dalle giovani sciclitane. La festa era preceduta da frenetiche manovre che non escludevano mezzani o mezzane e che culminavano nel fidanzamento ufficiale: l'"entrada". Passato un periodo di necessario rodaggio, che andava dai sei mesi a qualche anno, nel quale i promessi sposi approfondivano la conoscenza reciproca sotto lo sguardo vigile dei genitori, finalmente si fissava la data delle nozze. Questo rituale riguardava solo la piccola borghesia e le classi più povere. L'aristocrazia e l'alta borghesia, più disinvolte, più attente ai blasoni e alle rendite, obbedivano a regole ufficiali che emulavano il protocollo delle famiglie reali europee.
Alla fine dell'Ottocento e nelle prime decadi del Novecento, non essendo stato ancora firmato il Concordato, il matrimonio avveniva in due tempi. La mattina si celebrava in chiesa. Il corteo nuziale -in bianco lei, un vestito decente lui (forse l'unico in tutta la sua vita)- formato da amici e parenti muoveva dall'abitazione della sposa fino alla chiesa nella quale era stata fissata la funzione. Subito dopo dal fotografo per la fotografia di rito. Nel pomeriggio gli sposi, in abiti civili, si recavano in municipio per esprimere davanti al sindaco il loro consenso.
Restò famoso l'affronto fatto dal pastore Schirò alla figlia del barone Penna. Il matrimonio civile della nobildonna fu difatti celebrato da un bracciante al quale il pastore, eletto sindaco del comune di Scicli, di proposito aveva conferito la sua delega. Un timido tentativo di stigmatizzare la prepotenza di un ceto aristocratico e borghese.
Chi non poteva pagarsi il servizio religioso optava per la cosiddetta "messa dell'Alba". Le nozze avvenivano con una benedizione veloce degli anelli nelle prime ore del giorno durante appunto la messa dell'alba. Per la scarsa affluenza di popolo, la curia non esigeva un particolare compenso. Il clero sempre venale e molto distratto dalle cose del mondo non riservava particolare interesse all'intenzione di santificare un'unione attraverso la grazia del sacramento. Mio padre mi raccontava di essersi sposato col rito cattolico contro la volontà dei suoi genitori, socialisti della prima ora e fedeli seguaci del pastore Schirò. Di averlo fatto durante la messa dell'alba perché non voleva pagare per un servizio che riteneva dovuto e sacrosanto.


La sera nel quartiere cominciava il festino. Un'orchestrina suonava ballabili tra continui "passaggi" di guantiere con bicchieri colmi di vino; fave "caljàte" o "piscjàte" cioè passate in forno seguendo differenti metodi di preparazione; calacàusi (arachidi abbrustolite); càlja (ceci abbrustoliti) e siménta (semi di zucca abbrustoliti). Chi poteva permetterselo faceva "passare" tra gli invitati anche mandorle abbrustolite e ficùzzi (fichi secchi). In seguito tutto questo fu sostituito con biscotti di mandorla e rosoli vari. Le feste erano delle vere e proprie baldorie di massa. In un primo tempo si usavano le case più capienti del quartiere e, molto tempo più tardi, si affittarono anche grandi locali adibiti a lavorazione di prodotti tipici dell'agricoltura locale, chiamati, volgarmente, majazzè (magazzini). Mastro Antonino "u pudditrièddu" (il somarello) allietava le serate cantando le sue filastrocche comiche, accompagnandosi con la chitarra, producendosi in numerosi travestimenti e buffonerie.
Il lenzuolo macchiato di sangue, orgogliosamente ostentato dopo la prima notte, chiudeva in via definitiva le malevole bocche dei vicini riguardo alla verginità della sposa e alla prestanza virile dello sposo.


Come in molte città dell'Europa del nord anche nella nostra piccola Scicli esistevano luoghi d'incontro nei quali si potesse ballare. Spesso erano saloni sfitti trasformati in sale da ballo. Lo zio di mia madre ne possedeva una. Tutta la settimana le donne in casa preparavano biscotti e manicaretti che erano offerti la sera del sabato e della domenica, o nei giorni infrasettimanali di apertura, tra un ballo e l'altro. Si contrattavano delle vere e proprie orchestrine con un vasto repertorio di valzer, mazurche, polche e quadriglie. Ragazze, bollate come particolarmente facili da un'opinione pubblica implacabile e severa, erano reclutate, per un miserabile compenso, dal patron perché agissero da "entraîneuses" con i frequentatori del locale. Inducevano i giovanotti a consumare quanti più bicchierini di alcolici possibili. Le donne rimediavano così qualche cena, gli uomini qualche sbornia.
Le famiglie piccolo-borghesi organizzavano dei veri e propri buffet per il matrimonio. Da qui l'uso molto diffuso di portare grandi foulard e grandi fazzoletti per riempirli di tutto ciò che poteva essere arraffato.
Le famiglie aristocratiche invece contrattavano famosi pasticcieri e cuochi di Catania e di Palermo per offrire ricevimenti all'altezza del loro incontestabile prestigio a una cerchia molto ristretta di amici, sostenitori, guappi di cartone e prezzolati ruffiani.

Donna Sicilia era l'indiscussa "casaruciara" (dolciera) in quella Scicli d'inizio secolo. Nel 1866-67 erano entrate in vigore le nuove leggi dello Stato Unitario che espropriavano i beni religiosi e sopprimevano intere corporazioni. Conventi, monasteri, chiese e beni mobili erano stati incamerati dal Fondo per il Culto. Terreni e fabbricati di proprietà erano stati invece venduti all'asta o per trattativa privata. Religiose e religiosi costretti a svestire l'abito e a ritornare in famiglia. Donna Sicilia fu una di quelle monache. Dopo aver trascorso alcuni anni in monastero, ritornava nel mondo povera, priva di una parentela che la accogliesse, sola completamente sola. Occupò una casetta nei paraggi di Santa Teresa, dietro il vecchio Corso. Lì, per vivere, continuò, fino a un'età venerabile, a fare quello che abitualmente faceva in monastero: dolci. E le riuscivano così buoni che presto diventò il punto di riferimento di tutti i matrimoni della piccola borghesia sciclitana. I biscotti ricci semplici o aromatizzati ai diversi liquori; i "passa volando"; le spumette; le palmette; le palmette ripiene e la loro più aristocratica variante: i "cuòrcili", dei grossi panzerotti di pasta di mandorla a forma di conchiglia o di cuore, ripieni con una farcia di mandorle tritate abbrustolite, noci e marmellata, profumata con spezie varie; i cardinali; i jaddùzzi confezionati col miele; Torroni e cubbàita; cannoli, ravioli dolci e frittellone; frutta martorana per tutti i gusti e agnelli pasquali; suspìra di mònica e moscardine; cudduréddi con "cappedda ri parrinu" e mustazzola di miele, di vino cotto o di sciroppo di carrube; mostarde e creme; cedrate e aranciate, marmellate, conserve e caramelle; budini e biancomangiare; sciroppi vari e rosoli; tutte cose da spedire direttamente all'inferno anche chi goloso non era.

E poi biscotti, di tutti i tipi, buonissimi da far impazzire. Un trionfo di pasticceria siciliana e soprattutto sciclitana che trovava nelle antiche tradizioni dei diversi popoli che ci hanno dominato l'equilibrio magico di sapori e profumi, miscelati sapientemente all'ombra del chiostro. Faceva di quel mitico laboratorio l'anticamera stessa del paradiso. La mano sapiente della "mònica di casa" e il suo sorriso bonario segnarono indelebilmente il gusto di un tempo irripetibile nel quale la miseria conviveva con l'opulenza, l'allegria col dolore.


Più tardi, parecchio più tardi un'altra donna riuscì a ripetere il miracolo. Ma erano già tempi più moderni, recentissima storia.

Lo scoppio della prima guerra mondiale allentò le tensioni, svuotò le case delle braccia migliori, portò lamenti e lutti. Mio padre mi raccontava d'aver conosciuto al fronte Gabriele d'Annunzio, il mitico vate. Di essere rimasto soggiogato dal suo entusiasmo, dalla sua parola.


Molti amori perirono tragicamente sotto l'offensiva austriaca. La musica travolgente del can-can non riuscì a fermare la carneficina che imperversava in un'Europa attonita e impreparata per un conflitto di così lunga durata.
Pidocchi, malattie e fame decimarono i soldati nelle trincee del Carso. Il freddo ghiacciava l'urina e una retorica irredentista infiammava solo gli animi. I corpi provati, feriti, no. Spesso i nostri ragazzi restavano seppelliti sotto valanghe di ghiaccio, lontani dal sole che li aveva nutriti e generati.


Scicli, estrema periferia dell'Europa, sonnecchiava ai bordi del suo mare africano, scossa soltanto dal temutissimo bollettino di guerra.

Zio Agostino, il capitano, era un uomo bellissimo e attraente. Ferito nella ritirata di Caporetto era stato trasferito all'ospedale militare di Siracusa per un periodo di convalescenza. Nell'attesa della guarigione, amava fare improvvise incursioni a Scicli col suo inseparabile attendente Inzaghi, un giovanotto rubicondo, originario delle parti di Novara, timidissimo e fedele come un cane.

Tra una battuta di caccia e l'altra nella riserva del Trippatore o in quella di Donnafugata, meditava gloriosi assalti alle trincee nemiche, declamava dannunziani e ineguagliabili proclami. Sfotteva sempre, chiamandolo "minchione", il povero Inzaghi che non era capace di adattarsi al clima, al sole, alle straordinarie e ricche tradizioni dell'isola. Lo sottoponeva a crudeli torture per fargli ingoiare il più squisito forse dei dolci siciliani, il suo preferito, il biancomangiare di mandorle abbrustolite, che stranamente faceva senso all'attendente. Una donna di Milano gli scriveva giornaliere e struggenti lettere d'amore per confortare una forzosa assenza che preludeva al dolore dell'addio. La morte lo colse, infatti, un sorriso ironico nascosto sotto due splendidi baffi, in un impeto di patriottico coraggio mentre cercava di sorprendere alle spalle il suo nemico.


Un epilogo inatteso, drammatico, malinconico.


La grand'uniforme con la sciabola e il cappello di capitano, gli stivali e i guanti, furono per sempre riposti in una cassa abbandonata in un vecchio sottotetto. Le lettere della ragazza innamorata, le sue fotografie rinchiuse anch'esse in quel triste baule. La sua stanza, sigillata dalla polvere del tempo, custodì, come un sacrario inutile, il bel ritratto in posa da ufficiale, le sue povere cose, la memoria di un'epoca remota, le speranze, le lacrime, i ricordi, il sogno di un amore intenso, corrisposto e prematuramente consumato ai tempi della prima guerra.
  

                                                                                                         Un Uomo Libero

 



(1) Chi non sa fare all'amore -ricordati- si scusa dicendo di essere infastidito dai peli pubici.     
  
(2) Donna Amata truffa gente

Ecco che l'idea è stata vincente!
Non mi pare vero d'averla fidanzata!
Ora, perché la cosa sia più credibile,
occorre che faccia un po’ di scena.
Accorrete amici, accorrete comari,
venite, venite a consolarmi,
perché la svergognata di mia figlia
è fuggita con un uomo
e io che vagheggiavo un matrimonio onorato...

Dopo tre giorni:

(il giovane)

-Benediteci e vi chiedo perdono
Quante sciocchezze si fanno in nome dell'amore! -

(la donna)

-Con quale coraggio vi presentate
birbante, scellerato e traditore?
Avevo pronto il corredo ma ora non ve lo do
a causa della vostra fuga.

(il giovane)

-Sospetto che madre e figlia vi siete prima messe d'accordo.
Se non date a vostra figlia il corredo e un po’ di soldi,
io la lascio e ritorno al mio paese.

(la ragazza)

-Ora che sono stata finalmente tua
perché mi dai tutti questi dispiaceri?-

(il giovane rivolto alla futura suocera)

-Vi hanno soprannominato donna Amata truffa gente
e proprio dovevate truffare me?-

(il giovane alla ragazza)

-Brutta rognosa, come la rogna che si appiccica a tutto,
vattene con quella strega che ti ha generato!-


(3)
-Mia figlia ha ricamato una coperta ornata di una frangia preziosa.
Nessun pittore avrebbe saputo dipingerla così bene.
Ha un corredo tutto a pezzi da dodici.
Non vi dico le lodi degli amici e dei parenti.-

Toc toc

(la figlia)

-Sono io mammà-

(la madre)

-Ascolta, conosco un bravo giovane molto ricco,
con intenzioni serie, e vorrebbe fidanzarsi con te.
Oggi verrà qua, io vi lascio soli e con una scusa vado da tua zia.
Se ti vuole baciare, lascialo fare;
se ti propone di fuggire, figlia mia non perdere quest'occasione
perché dobbiamo fare del nostro meglio
per intrappolarlo senza mollare il becco di un quattrino.


(4)
Tutti son partiti. Anche il mio amante
è partito
e mi ha lasciato sola e sconsolata,
senza il tempo di salutarmi,
di dirmi addio,
di raccomandarmi ai santi.

Chi sa dirmi per quale strada
si sia allontanato
e in quale luogo oggi si trovi?
Nessuno lo rimpiange
quanto lo rimpianga io,
nemmeno la madre che lo partorì e lo crebbe.


(5)
Svegliati, su svegliati che è già mattino
e il troppo dormire ti fa male,
sappi che da queste parti gira il tuo amante
e presto ti canterà(porterà) una serenata

(6)
Perché amore piangi e ti lamenti
e notti e giorni non finisci di sospirare e di cantare?
..................................................................................

lo sai che pena grande si prova
quando l'amore ti passa vicino.

(7)
So di sicuro
che siete due sorelle
e tutt'e due dormite nello stesso letto.
So di sicuro
che siete molto povere
e tremate di freddo nella notte.
Però se cercate di riscaldarvi e non sapete come,
io posso sempre farlo, se volete, coricandomi nel mezzo di voi due.

(8)
Ho ricevuto una lettera da Acireale,
leggila e vedi che cosa  ti manda a dire il tuo amante.
La lettera chiede con insistenza di fare pace
ma io non voglio riappacificarmi con chi mi è nemico.
Sapete quando io farò pace con lui?
Quando l'acqua del mare da salata diventa dolce. 

(9)
Cuore mio
voi state giocando con due cuori (due persone diverse; è un magnifico gioco di parole)
e mi sorprende il vostro poco giudizio.
Non si fa come state facendo voi
che un cuore (il vostro)lo tagliate in due!
Buon per voi che continuate a fare finta di niente,
per parte mia ve la do vinta.
Ma, attenta! Una cosa sola mi dispiace.
Di questi due cuori sicuramente non ne avrete alcuno.

(10)
E' passato il tempo delle nozze (dell'amore)
quando con me eri tutto miele.
Ora che viviamo da tanti anni insieme
calci e pugni -se voglio- e anche sgridate.







Nella foto, Giovanna Mezzogiorno ne "L'amore ai tempi del colera"
    
 


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