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Federico Borrometi, l'uomo, il musicista, il genio

Borrometi esprime nella sua musica il profumo di un'epoca che conobbe un travaglio politico non indifferente



Su Federico Borrometi, direttore per cinquant'anni della banda municipale di Scicli, si è scritto poco ma quel poco che è stato scritto, a mio parere non rende giustizia all'uomo, al compositore, alla sua musica.

Perché non ha voluto mai abbandonare la provincia che lo espresse e lo ispirò? Forse.

Perché decise di battere strade solitarie che più rispondevano al suo estro creativo? Sicuramente.

Definire le sue composizioni come "residui romantici del primo Novecento" mi sembra azzardato, ingeneroso, presuntuosamente accademico.

Federico Borrometi, esprime nella sua musica il profumo, le ansie, tutti i sentimenti di un'epoca che conobbe un travaglio politico non indifferente.

Amarezze, lutti e trionfi della Prima Guerra Mondiale contrapposti alle arroganze di un partito fascista che immediatamente speculò, in questo sperduto angolo siciliano, sull'equivoco rapporto latifondo-mafia.

Una nuova mentalità emergente, difatti, si affermava agli inizi degli Anni Venti non solo nella penisola ma anche qui, in questo estremo lembo di Sicilia. Un pensiero nuovo si sostituiva abilmente alla consuetudine mafiosa, per un intimo bisogno di radicarsi nel territorio. Si presentava come moderno e sincero interlocutore tra l'antico capitalismo declinante e le mai sopite tensioni delle masse operaie a lungo ingannate dal trasformismo giolittiano.

Cambiare qualcosa perché tutto rimanesse come prima, fu la vera parola d'ordine dei nostri gattopardi. Un camaleontismo politico grazie al quale bisognava mantenere un secolare equilibrio di forze che perdurò fino alla caduta del fascismo e che esplose, alla fine della Seconda Guerra Mondiale con la Liberazione, nella consapevole lotta delle masse operaie finalizzata alla ricorrente e sacrosanta richiesta di frantumare il latifondo.

Prima di tutto questo, Scicli era una parentesi feudale in un'antica enclave spagnola, la Contea di Modica. Non altro.

A Scicli i Fasci dei lavoratori, come in altri centri dell'isola, si costituirono alla fine dell'Ottocento. Controllarli e gestirli non fu difficile, anche se la presenza di un coraggioso Pastore Metodista scatenò subito rabbie, lotte e passioni, definitivamente soffocate dall'avvento del regime fascista.

L'irrequieta e avida classe borghese intravedeva nel pensiero littorio l'occasione ghiotta per agganciare dal basso un'aristocrazia distratta e decadente e per questo subito vi aderì. Con matrimoni programmati ad hoc, con coinvolgimenti in speculazioni poco pulite ma necessarie, barattava semplici consensi aristocratici con improvvise e sospette concessioni del potere.

In quest'atmosfera di continuo compromesso matura e vive l'arte del grande maestro.

Intimamente e sentimentalmente legato all'aristocrazia locale, Federico Borrometi pone (ma fecero così anche altri grandissimi e celebri musicisti) il suo talento al servizio di una classe colta ma elitaria, raffinata e sensibile che ne intuì le grandi possibilità e ne apprezzò i meriti.

Un universo a sé era Scicli alla fine dell'Ottocento, dunque. Chiusa a riccio nella sua malinconica e annoiata esistenza. L'Europa, irrequieta e agitata, era anni luce lontana. Il fruscio trasgressivo del can-can era così estraneo alla bigotta società sciclitana che anche le timide e ancora ingenue avanguardie musicali sarebbero apparse scandalose e incomprensibili.

La prima Grande Guerra destò dal sonno questa città bella e addormentata. Tra arruolamenti e partenze, il mondo irruppe con la forza della tragedia e del dramma fra i vicoli ardenti, nelle grotte abitate delle antiche necropoli, nei palazzi proibiti, dalle volte dipinte e dorate, le cui penombre avevano il magico potere di fermare il tempo.

Un angelo sterminatore si scagliò, presto, inaspettato e improvviso su questo grumo d'anime. Si esasperavano le ansie nella bottega del farmacista, si moltiplicavano i pettegolezzi al Circolo di conversazione, si spiavano le mosse del postino nell'attesa trepidante di una lettera dal fronte che mai sarebbe arrivata. E con essa la perduta consolazione di un ultimo abbraccio.

Il maestro componeva "Sul Piave", la sua banda "arruolata" taceva.

Le case imbiancate a calcina cominciarono a tingersi del nero del lutto, fino a quando il vento e la pioggia non lo ridussero a brandelli di memoria, fino a quando non fu così sbiadito da perdersi nella follia del quotidiano per una rassegnata necessità di sopravvivere.

In un consuntivo drammatico, le bare degli eroi arrivavano numerose alla fine della guerra. Sfilavano a una a una, con il loro triste carico di morte, per l'antico Corso. La città coralmente si stringeva loro intorno per un estremo saluto, ascoltando un elogio funebre pronunciato tra le lacrime dal sagrato della chiesa di San Giovanni Evangelista, piangendo sulle note di una "marcia" che saprà solo straziare il cuore.

Marce funebri, dunque. Tante. Eseguite alcune da una banda municipale ricostituita faticosamente nel 1919. Scritte in diversi periodi della sua lunga carriera in ricordo di questo e di quell'altro amico, per accompagnare le spoglie mortali dei suoi mecenati o solo per solennizzare i riti della Settimana Santa. E poi ancora canzoncine per le feste liturgiche, da cantare insieme al popolo in festa. Tutte queste composizioni scandivano un tempo nel quale la vita, riacquistati gli ordinari ritmi, scorreva abitudinaria nelle case, ripetendo vecchi cliché e solo in parte era da questi alterata.

Nell'isola felice la musica era, in effetti, l'unica grande protagonista, l'unica vera risorsa e il maestro era il mago che rendeva possibile tale sortilegio. Si aspettava il ballo. Per un fidanzamento, per carnevale, per un gala che voleva ostentare solo ricchezza e potere, per nozze sante e benedette, spesso abilmente combinate tra copiose e blasonate rendite. Ogni pretesto era un imperativo del momento. Un ballo infinito per una crepuscolare generazione di semidei che si ostinava a non voler immaginare il suo tramonto. Aristocrazia e borghesia danzavano perennemente avvinte sulle note degli innumerevoli e fantastici ballabili borrometiani. Uno per tutti, il celebre valzer "Anime gemelle", composto nel 1904, dove la musica sembra non avere né un inizio né una fine ma solo la leggerezza tipica e spensierata di quegli anni.

Più tardi i saloni dei fastosi palazzi risuoneranno solo dei rumori dell'abbandono che la polvere del tempo renderà ancora più spaventosi e osceni.

Il "salone delle feste" di palazzo Busacca chiuderà malinconicamente gli scuri dei finestroni alla luce per un disperato desiderio di oblio e di ombra. Il "salone delle feste" della villa Mormina di Donnalucata sarà consumato dal sale della salsedine che renderà ancora più amari i suoi ricordi. Della vecchia "Filarmonica dei Cavalieri", che spesso si esibiva in quelle stanze, a stento è sopravvissuto qualche strumento, conservato come un vecchio fossile dentro un'inconsapevole vetrina.

La vita privata stessa del Maestro sarà attraversata nella sua maturità dal dolore, dallo scandalo e dalla vergogna. Come prima quella più autorevole e conosciuta di Verdi.

Ciccino, il bambino di Giuseppe, il figlio che, degli otto che il Maestro ebbe, più di tutti aveva ereditato il suo talento musicale, proprio nella casa di Fabiano a Donnalucata, durante il tempo di una villeggiatura, sarà morso da un cane idrofobo e morirà. Questa disgrazia getterà l'intera famiglia nel lutto, nella povertà e nella disperazione. Una storia d'amore tra un'altra figlia di Giuseppe e un cugino, intrecciata all'ombra di una parentela cinica e complice, avrà un epilogo drammatico e amaro che spezzerà definitivamente il cuore del compositore.

Alla fine dell'estate del 1940, quando già all'orizzonte sono ben riconoscibili nuovi venti di guerra, il musicista si spegne in una pigra Donnalucata calda e settembrina che per una volta ancora è l'amata testimone del suo ultimo respiro.

La marcia funebre "Dopo la mia morte", composta dal Borrometi nel 1935, una vera e propria preghiera in musica offerta al Dio che aveva ispirato tanti suoi componimenti di musica sacra, aspetta purtroppo invano di essere eseguita in suffragio della sua anima.

 

Federico Borrometi nacque a Modica, visse quasi tutta la vita a Scicli, morì a Donnalucata. Un genio modicano che si fa sciclitano per amore. Ecco la grande lezione umana di questo illustre personaggio così poco conosciuto ma tanto importante nella storia musicale del nostro più recente passato. Una lezione che supera qualsiasi campanilismo, qualsiasi preconcetto culturale, qualsiasi steccato ideologico. E nel suo nome spero che le due città vicine e sorelle possano avviare una collaborazione fruttuosa e utile perché la sua opera non sia completamente dimenticata, perché la sua figura sia riscoperta e apprezzata, perché il suo talento sia universalmente riconosciuto.

 

Nell'imminenza del settantesimo anniversario della morte.



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