Palermo - La riunificazione? Nel piatto, prima che sui campi di battaglia. La cucina come collante più forte di qualsiasi ideologia e cartina di tornasole di costumi sociali, economia, storia, cultura di una nazione. Se questo vale per l'Italia, è ancora più vero per la Sicilia, terra in cui una vera identità si scopre, forse, solo a tavola.
Tutto comincia (si fa per dire perché non si possono cancellare secoli di contaminazioni culinarie) dallo sbarco dei Mille. Quando Garibaldi arriva a Marsala l'11 maggio del 1860 non trova ad accoglierlo quella folla festante di cui parlano i libri di storia. I Marsalesi avevano appoggiato i moti del 1848 e alla fine per loro c'erano state le forche e i bombardamenti di Ferdinando II. Garibaldi, peraltro, da parte dei preti era stato considerato un diavolo in terra, un eretico. Quindi una certa "freddezza" era il minimo che il generale si potesse aspettare. Sbarcato al porto di Marsala a quasi tre km e mezzo dal centro del paese, l'unica cosa che gli premeva fare era andarsene a letto per poi riprendere il cammino verso l'interno dell'Isola all'alba. Ha fretta il generale, perché Marsala è un'enclave dal punto di vista strategico e lui teme di poter rimanere "chiuso" dalle truppe borboniche. Ma anche l'eroe dei due mondi (e soprattutto le sue truppe) deve mangiare. «Quella sera a Marsala - racconta Reginaldo Grasso, prof. di Filosofia appassionato di storia della gastronomia - di cibo non ce n'era. Non c'era nemmeno pane, perché i panettieri erano scappati nelle campagne. Le camicie rosse aprirono i forni e fecero il pane per le truppe. A Garibaldi non restò che l'ospitalità di una famiglia del posto. Quella sera il generale gustò con un piatto semplicissimo. Uova sode, salame, una sorta di pasta fritta e dei fichi secchi». Se è vero che, alla fine, mangiamo quello che più ci assomiglia, la "sostanziosa", grezza, semplicità degli ingredienti di quella cena non avrebbe potuto rappresentare meglio la concretezza caratteriale e il senso pratico del generale. Ma quello che folgorò Garibaldi quella sera non fu una promessa di fama imperitura nella storia d'Italia, quando un bicchierino di Marsala che la famiglia gli offrì a fine pasto. «In realtà - spiega Grasso - il generale non beveva, lo dice anche la figlia. Semmai si concedeva qualche bicchiere di vino molto diluito. Ma questo Marsala gli piacque molto. Dopo due anni tornò a Palermo, ormai da ospite, dai Florio. Lì chiese nuovamente quel Marsala. Non fu difficile trovarlo. Era un Marsala non filtrato, dolce, un po' grezzo che gli piacque ancora una volta tantissimo. I Florio, allora, inventarono in suo onore il famoso «Garibaldi dolce» un tipo di Marsala che tutt'oggi si produce».
Da quel Marsala il viaggio gastronomico della Sicilia è stato lungo - 150 anni - e, per certi versi, anche tortuoso. Passata attraverso stagioni esaltanti e periodi bui l'arte di mangiar bene "alla siciliana" sta ritrovando solo in questo ultimo decennio una sua identità attraverso la riscoperta di cibi semplici, lontani dall'appiattimento del gusto imposto dalla grande industria dell'alimentazione.
Ma come ci siamo arrivati?
«Uno dei punti di svolta - secondo Grasso - è stato sicuramente l'editto del 1866 con il quale i Savoia accorparono conventi e monasteri costringendo l'80% di queste strutture religiose a chiudere. Mentre i vertici dei conventi tornarono nelle famiglie nobili di provenienza, moltissime suore non sapevano cosa fare. Così andarono a ricamare o ad accudire le ragazze nelle case degli aristocratici. Anche le suore pasticcere uscirono dalle cucine dei conventi facendo così conoscere un patrimonio di ricette che altrimenti non sarebbe mai stato divulgato. Fu il passaggio dalla cucina religiosa alla cucina laica, una rivoluzione immensa. Non bisogna dimenticare che fino ad allora l'unico libro di ricette che esisteva era il «Liber de Coquina» un testo prodotto in seno alla corte angioina di Napoli, nel XIV secolo. Libro che qualcuno sostiene sia abbia avuto alle spalle addirittura un testo del secolo precedente redatto alla corte dell'imperatore Federico II».
Negli anni successivi all'unità d'Italia, la cucina popolare si fa strada. Scompaiono via via i monsù, gli chef delle grandi famiglie patrizie ed emerge sempre di più la differenza della cucina tra ceti ricchi e ceti poveri. Ma dalla progressiva "perdita" di una cucina per palati fini, nascono i piatti immortali della tradizione siciliana.
«E vero che molte ricette - spiega Pippo Privitera, presidente regionale di Slowfood - vengono rese più povere. La caponata imperiale dell'800, per esempio, diventa la caponata odierna, fritta e senza pesce (il capone da cui, appunto, il nome ndr). Ma le perdite più gravi saranno quelle dovute alle regole dell'industria alimentare. Per esempio, negli anni Sessanta, l'introduzione dei processi di pastorizzazione. Secondo me è stato uno dei drammi più forti che ha subito la cucina siciliana. In quel periodo si pastorizzava di tutto dal vino al latte. Ora, se da una parte tutto ciò era dettato da giuste esigenze di carattere igienico, è anche vero che l'ipertecnologia applicata al cibo ha fatto sì che sparissero molti alimenti dal "paniere" della gastronomia siciliana. Per esempio il canestrato, un formaggio storico della nostra terra, sparito perché la plastica doveva sostituire il canestro di giunchi nel quale veniva lavorato. Venne adottato il canestro di plastica, più basso del tradizionale "canestro", ma quel formaggio si differenziava dal pecorino tradizionale proprio per la sua altezza. Risultato: venne cancellato un formaggio per motivi igienici».
In questi 150 anni i cambiamenti in cucina più che essere legati a motivi di carattere storico che hanno cambiato qualcosa nell'antropologia della trasformazione dei costumi, sono stati poi determinati dalla troppa razionalizzazione, dal voler inseguire a tutti i costi una replicabilità e un abbassamento dei costi sul piano alimentare. «Si è cercato - dice Privitera - di mettere il cibo all'ultimo posto. I contadini di Niscemi sono ritornati a coltivare il carciofo violetto tradizionale, dopo un'esperienza fallimentare con il carciofo romano che avevano piantato in massa. Certo è andata bene per un periodo perché era il prodotto che chiedeva il mercato e veniva pagato di più, ma si sono resi conto che produrre il carciofo romano comportava anche più spese e che il carciofo "violetto" aveva alla fine un indice di produttività molto più alto. Un processo che è avvenuto anche con il suino nero dei Nebrodi, con la lenticchia di Villalba, con il pomodoro siccagno di Valledolmo e così via. Questa presa di coscienza è, oggi, la cosa più importante, perché significa che siamo tornati a dare valore al cibo e all'agricoltura, economia primaria per la Sicilia. Da qui, a cascata, il recupero di certe ricette che stanno tornando di moda. Nei menù di alcuni ristoranti più "attenti", è tornato, per esempio, il "pane cotto" che si era perduto perché il pane industriale non si può riciclare. Oggi, rifacendo il pane con il criscente, a lievitazione naturale, si può recuperare non solo il prodotto-pane, ma anche la ricetta che negli ultimi vent'anni avevano dimenticato».