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Franco Sarnari: L'emozione è nel frammento

Intervista di Elisa Mandarà su la Sicilia

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Scicli - Una tavola rotonda, ampia e solida, i cui commensali sono volumi d'arte, fogli che raccolgono studi, viaggi, artisti cari. È qui che avviamo la conversazione con Franco Sarnari, e qui, tra «Frammenti», «Cancellazioni», «Neri», cogliamo la misura d'un dettato raffinatissimo, costruito su una poetica consapevole e personale. Guardiamo insieme «Jackie» di Andy Warhol, «la volgarità diventata un simbolo di fascino», dice il maestro, lasciando trasparire, dalla boutade, i giochi seri della contraddizione.
Che rapporto esiste tra la pittura, il pensiero, la vista?
«Per me l'arte è tradurre un'emozione con qualunque mezzo me lo consenta. Non è ciò che vedo, in modo che l'occhio diventi parte integrante della forma e delle cose che dipingo. Cesare Brandi diceva che posso ricevere un'emozione da un portacenere o da una mela. L'emozione avviene attraverso un'identità palese, che posso identificare. Ma ha pure una parte oscura, che è la somma di processi atavici a noi ignoti. Tu sentirai pochissimo di ciò che quell'oggetto è stato per me. La mela non è perciò mai l'elemento di unità tra te e me».
Cos'è che lega dunque l'artista al fruitore?
«È la traduzione. Quello che relaziona questi due elementi e diventa una sorta di oggettività, capace di essere vista da me e da te. La battaglia è questa, quella di mettere insieme l'oggetto con l'emozione».
La memoria degli autori cari. Quanto si è liberi dagli artisti che incidono su testa e cuore?
«Forse non si è liberi mai. Ci sono autori che hanno avuto incidenza nella mia relazione emozione-traduzione, in un processo che non è copia, come attestano le mie "Cancellazioni", che sono il processo opposto all'essere di quella cosa. Dalla "Flagellazione" di Piero della Francesca non ho mai deviato, perché mi identifico nelle autonomie della sua opera, dove, come in un puzzle, ogni cosa ha una sua specificità e traduzione: non ha relazione con l'opera, come avverrà nel periodo romantico, non è un'emozione che coinvolge l'insieme. Il gesto in Piero della Francesca non è pari al coinvolgimento dell'insieme, pur stando nell'insieme. La pittura è un fatto di fascino totale, mentre per lui, unico in questo senso, tutte le cose hanno una loro verità, che messe insieme diventano un cosmo. Ma tu puoi dirmi l'emozione del cosmo? È un senso di trovarti in modo immanente all'interno di una struttura che non conosci, piena di misteri, ma anche quello che noi sappiamo, come le stelle».
Per tanti artisti siciliani l'isola è un carico pesante di emblemi e passati, da cui espatriare per 'liberarsi'. Cosa significa scegliere la Sicilia?
«A Roma tutto era diventato farraginoso, salottiero, borghese. Ho provato il desiderio di evadere, che ha coinciso col mio incontro con Piero Guccione. Sono arrivato così in Sicilia, dove ho scoperto una misura di chiusura, rispetto al cosmopolitismo di Roma, ma anche un luogo dove la gente era pure più disponibile, pur dentro il gattopardismo».
A proposito della sua collezione dei "Neri", cosa c'è oltre il nero?
«Lo sto ancora cercando. L'iconografia è lontana, risale agli anni '70, quando ho fatto un dipinto di 18 metri per 2, "Il mare si muove". Metto gruppi di colori, finché diventa tutto un buio, che è "Nero". Lo chiamo buio, ma non lo è: è colore su una superficie densa. In ogni tela ci sono dai quarantatre ai quarantasette passaggi di colore, li ha conteggiati mia figlia. Il nero non è mistero. È come se io dovessi lucidare un parafango, un pezzo grezzo di lamiera, che tu cominci a pulire, a levigare. Ho paragonato il mio a un lavoro artigianale, che mi ha dato sempre una grande forza, un senso di tangibilità sulla cosa, mai di vaghezza. I "Neri" sono questo. Quando ho visto l'Onda montata, mi ha fatto una grande impressione, come se vi fosse un animale fortissimo, dietro la veletta, e dentro c'era un presente senza passato e senza futuro, che non vuole essere nient'altro».
Non il nulla, il buio, quindi, questo animale senza naturalismo, calato nell'assenza del tempo, ma la somma di vibrazioni, luci, colori...
«Lo vedo come uno scrocchio di dita dell'universo, della vita, che non ha preparazione precedente che non sia questa manualità priva di fine. Avevo paura che potessi dare un dato di emotività all'interno, che potesse far presupporre un tempo, una classificazione. Doveva esserci solo il processo del paraurti, che, quando è diventato perfetto, va collocato al suo posto».

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