Rinnegare la lingua italiana, perpetrarne il delitto sistematicamente, negli ultimi decenni non è stato avvertito come uno scelus, crimine contro la cultura, bensì come una crociata d'emancipazione, un faro di modernità, almeno per chi non conosce il classico, cui appartiene, a pieno titolo, la storia magnifica della lingua italiana, che italianisti di tutto il mondo onorano con devota passione.
L’ignoranza tende a vedere mezzo pieno il bicchiere assolutamente vuoto e, a ricaduta, dalla politica della scuola alla scuola della politica, l’anglomania della Parola, scritta e parlata, per tanti anni e per tanti ignoranti è stata una medaglia sul petto . Quel “feticismo” anglomane, oggi, è stato quasi del tutto spazzato via dall’aggressione barbara della lingua virtuale, internet e i social media. Lingua virtuale, artificiosamente quanto velocemente nata in vitro, che ha conquistato miliardi di proseliti, di suggestionati seguaci, in tutto l’Orbe.
Impararne i segni, alfabeto comune di questa lingua, è facilissimo per chiunque. Non c’è bisogno di una grammatica di supporto, né d’una sintassi d’orientamento. Chi, oggi, non si esprime coi signum-linguaggi di internet e fb (emoticon, distintivi, file, chiavetta usb, poke ....), di cui il mondo è alfabetizzato, è guardato con sospetto, segnato a dito come pericoloso reazionario integralista, un sovversivo dell’Isis contro l’ecumene virtuale!
Con parsimonia noi abbiamo aperto un piccolissimo varco a queste new entry linguistiche, imposte dalla circostanze, ma destinate alla sparizione, alla cancellazione, non appena altri linguaggi daranno loro lo sfratto, senza preavviso alcuno, facendoci sentire, ancora una volta, sordi e muti fino al nuovo minimo apprendimento di sopravvivenza.
In questa babele linguistica, non perdiamo, dunque, occasione di proporre parole italiane, che però in Italia suonano sconosciute, mentre il loro sinonimo inglese, adottato in surroga, suona invece assolutamente familiare, dalle Alpi a Capo Passero. Analessi, chi o cos’è costei o costui? un’infezione, una malattia genetica, un rompicapo da codice penale?
L’enigma viene sciolto immediatamente quando se ne usi, da noi in Italia!, il suo sinonimo inglese “flash back”, cioè l’interruzione del succedersi degli eventi per inserire eventi accaduti in precedenza. Non altro che un mo- dus operandi adottato spesso nei linguaggicinematografici, teatrali o letterari stricto sensu. L’analessi ci consente, nel caso specifico odierno, l’inserimento di una o più ekfrasis, all’interno di cui incistare subito quella Luce e quel Lutto, da sempre metafora insuperata espressiva imperfetta, quindi “perfetta”, per la Sicilia.
A vent’anni dalla morte biologica di Gesualdo Bufalino, che della Notizia fece Storia, per dirla col suggestivo prezioso saggio di Giuseppe Di Fazio, e del mito fece letteratura, nulla è mutato, almeno in quest’isola del Bello letterario, ascritta a un catasto magico, ben oltre la geografia dei mappamondi. Luce e Lutto sono senza tempo, epilessie dell’anima, patrimonio concettuale, spirituale, subliminale, sottratto alla tirannia di secoli e millenni, figli d’un Dio maggiore. Luce e Lutto, ma potremmo dire alluvione e siccità, parola e silenzio, cuntintizza e chiantu, sono un felice esempio di quel bipolarismo poetico, che di millenni anticipa il bipolarismo psichiatrico, o sindrome maniaco-depressiva, il cui gene è sconsolatamente biologico, non provvidenzialmente ossimorico.
Per questa nostra Isola, vaga nel Mediterraneo liquor, di cui nessun Colapesce più sostiene sulle sue spalle le sbriciolate colonne, adottiamo un’ossimorica metafora siciliana, d’archetipo greco (epigramma ellenistico), che ci piace moltissimo, «murata a ‘n filu». Metafora di potente e millenaria tradizione orale, come nella migliore epica omerica, perché l’umana vicenda è essa stessa Epos. Infinito epos, senza tregua né trattatelli di pace come, invece, nella transeunte marciscente storia della Storia.
La Luce e il Lutto ribattezzò Bufalino l’eterno Mito del ratto di Persefone a opera d’un dio, Ade, che senza lei non vive, che senza lei non visse. Cos’altro sono Ade e Persefone (Plutone e Proserpina nel mito latino), se non quella luce e quell’oscurità che, oltre ogni apparenza, si copulano nella medesima unità esistenziale?
Demetra, madre straziata per il ratto della figlia, ottiene da Zeus padre che sei mesi l’anno torni in vita la sua creatura a illuminare il mondo della sua Luce.
La semestralità perfetta, sei mesi sottoterra, sei mesi sulla Terra, sono indicatori d’una potenza in par condicio: Luce e Lutto hanno il medesimo peso, questo sancisce il mito.
I sei mesi agli Inferi di Persefone ingravidata dalle viscere della Terra, affermano inconfutabilmente, fuor dalla favoletta, la necessità della gravidanza del Pensiero, i tempi dovuti a che il feto-Pensiero venga alla luce. Insomma, l’abbiamo detto migliaia di volte, il Mito ha anticipato tutto con profetica messianica veggenza, anche la psicanalisi che data poco più d’un secolo!
«Nell’andare da Siracusa verso Agrigento è uno strazio continuo, perché a ogni istante si vorrebbe sostare a godere di questa terra che sente il respiro dell’Africa. E invece, come nella vita, si è sempre legati alla fuggevolezza del tempo che, a ogni piccola felicità raggiunta, subito ci strappa con rudezza invincibile. Mai ci sarà riservato come premio ai nostri giorni tormentati in massima parte dagli incubi delle guerre e da tutte le noie di una società che non sa darci un attimo felice, di potere percorrere a piedi questa spiaggia che si evolve da Capo Passero a Gela e a Licata fino ad Agrigento, come l’orlo rosato d’un fiore. Fortuna di quelle genti che greche e arabe che un giorno approdarono a questa spiaggia, come insetti iridescenti verso il connubio inebriante con quest’isola-fiore, sospinti da venti favorevoli» (Quattro scrittori Quattro Sicilie, Dario Stazzone).
Questi “versi” di Giovanni Comisso, scritti in prosa, perché nel- la nostra metrica non disponiamo di quel verso, trimetro giambico, che distingueva, nella tragedia greca, l’episodio ad andamento narrante dallo stasimo poetico, testimoniano ancora una volta quella gravidanza di Luce che il Buio esalta non occulta.
A noi è stato concesso di «percorrere a piedi questa spiaggia», che erinni di sole ingravidano di ginestre ed agavi alte quanto un uomo. Lo abbiamo sentito anche noi quel comissiano «respiro del Mediterraneo».
Era l’asma, paurosa e potente, della “ddraunàra”, la feroce femmina del drago, che non si faceva scrupolo mai di rapinare vascelli picciotti e marinai, per la sua lunga buia e infelice vedovanza in mare. Lei, la draghessa, «di spaventosa bellezza» (Bufalino) come la Cibele del Mito, che fece, di giovinetti, eunuchi prigionieri e servi fino all’ultimo sbavo di vita.
Un murmure sovrano soffia lo scirocco mentre ingravida quelle serti di sabbia, cui cede, vinta, la stessa Luna nelle notti di luna.
Comisso in pochi versi, che hanno pondus d’eternità, respira il miracolo del Classico che si fa storia, che si fa perennità, oltre ogni diceria d’untori infami. Un pellegrinaggio di greci, conquistatori di Bellezza, fanno della Sicilia il patrio suolo perché è di tutti il Bello, di tutti quelli che ne conquistano per virtù l’accesso.
Sulla buia valanga di cupa roccia precipita la Luce, e non è un caso, è una certezza, è una conferma d’infinito amplesso tra Luce e Lutto «la riva si distese aspra e incolta... monti brulli si profilavano all’orizzonte, ...cespugli di gerani selvatici davano la misura della distanza, mentre la costa rocciosa e nera si infrangeva contro l’azzurro del mare ogni tanto illuminato dal verde dei fondali. La luce precipitava dal cielo, alta e lontana dovunque...» (ibidem). Solo la Letteratura ridà alla Sicilia la sua violata santità....