E' la Storia a scrivere una Lingua, non viceversa. La Lingua italiana è dunque un magnifico viaggio, storico-antropologico, attraverso Popoli con cui, per colonie e dominazioni, siamo venuti a contatto nei millenni.
Il tatuaggio linguistico dominante della Lingua italiana è quella grecità, che di sé lasciò magnifica archeologia in Magna Grecia e in Sicilia.
In misura più limitata, ma non meno qualificata, la Lingua italiana porta il segno della Cultura araba, normanna, francese, inglese.
L’etimologia di “congedo” è nel francese congiet, che più faceva riferimento al congedo militare che al congedo interpersonale.
Non tragga in inganno l’apparente somiglianza del corpo delle parole “congedo” e “congesto”. Si somigliano, congedo e congesto, che pur non hanno affatto un dna linguistico comune.
“Congesto” è, infatti, un latinismo (da congero-is-congessi- congestum-congerere), e significa sovraffollato, lontanissimo dunque dal significato di congedo.
Oggi ci congediamo da lettori straordinari, fonte inesauribile di ispirazione, che da ottobre, incessantemente, hanno “dialogato” con noi in questo spazio di Parola, Pensiero, Libertà.
Una “palestra” per l’esercizio della Bellezza e dell’Anima, in cui istruttori straordinari, Autori classici e contemporanei, senza distinzione di nazionalità o di lingua, in tutti i nostri lettori, al di là delle specifiche competenze, hanno risvegliato la curiositas, hanno acceso il dibatto, ben oltre la pagina, fortemente voluta da La Sicilia, che devotamente ringraziamo.
Il dibattito, infatti, ha trovato su messenger del nostro profilo facebook, il luogo dove centinaia di lettori, ogni settimana, dall'articolo della domenica al successivo, hanno professato amore, ammirazione, stupore per il Classicismo, hanno formulato richieste, suggerimenti.
Per tutti valga il messaggio (19 giugno) di Antonio Salvatore che citiamo testualmente: «Ho letto il suo bell’articolo stamani. Ho letto qualche libro di Bufalino: “Dicerie dell’untore”, se non ricordo male, “Tommaso il fotografo cieco”, “Qui pro quo” (vado a memoria) e il libro sulle novelle: “Da Giufà ai miti Greci”. La sua era poesia in prosa, come la sua Prof. Grasso. Non sapendo come ringraziarla, mi permetta di farlo con una citazione. “La danza in tutte le sue forme, non può essere esclusa da una nobile educazione: danzare con i piedi, con le idee, con le parole e devo aggiungere che bisogna saper danzare con la penna”. Mi scusi se sono stato inopportuno, Le auguro una bella domenica».
Questa è la vitamina per la nostra scrittura, questa è la trasfusione d’entusiasmo, di cui tutti abbiamo bisogno in un mondo che più non parla ma chatta.
È questa pacata eccellenza, che non fa spocchia del suo sapere, la celeste corrispondenza d’amorosi sensi con la Poesia inestinguibile della Bellezza, che va considerata virtù, non appendice o dettaglio d’arredo.
Queste parole cacciano via ogni stanchezza, anche se, tra tantissimi altri impegni, legittimamente stanchi siamo.
Non è stato facile per questo “congedo” alle porte dell’estate scegliere, tra centinaia di idee, quella giusta per simili impagabili lettori.
Ci siamo ispirati proprio ad Antonio Salvatore, alla sua eccellenza, vestita di modestia e pacatezza, alle sue sentenze lapidarie, sparse come fossero fiocchi di neve.
Ed ecco Enone, sconosciuta virtuosa Enone.
Molti si staranno forse chiedendo se questo nome celi un uomo o una donna.
È un ragazza Enone, di Paride innamorata, di quel tronfio e trionfante Paride, di cui tutti sanno ch’era principe bello e stupidotto. A conferma del fatto che non fa notizia la virtù nella Vita né faceva notizia la virtù nel Mito.
Scrive una lettera al suo vanesio amato traditore, la ninfa Enone (“Heroides”, Ovidio). Era stato amore tra i due sul monte Ida, tra capre generose di latte e tramonti rossi come sangue di lava. Ma quando, dopo la gara di bellezza tra le dee, di cui è giudice, Paride si reca a Troia per la bella Elèna, dono promesso da Afrodite, resta sola ad amare, la ninfa, resta sola a ricordare, presaga della tragedia futura: «Partisti piangendo e vedesti i miei occhi piangenti; mescolammo, tristi ambedue, il nostro pianto: non si stringe tanto l’olmo alla vite quanto le tue braccia si avvinsero al mio collo. Ah quante volte, dopo il commiato, mi richiamasti per darmi altri baci, e quanto a fatica la lingua riuscì a dire addio» (Ibidem).
Nel corpus delle Heroides ovidiane sono eroine notissime a scrivere lettere di temperamento ai loro traditori amanti. Didone, Arianna, Penelope, Fedra, Medea, Saffo, Elena, Deianira, regine, o donne comunque potenti.
Lo è altrettanto la ninfa Enone, almeno in quella potenza d'amore che non si esaurisce, nonostante l’abbandono, il tradimento: amare per sempre quasi sacro officium d’una vita.
Ovidio, che ben conosce la scellerata lussuria delle matrone romane (I a.C.), e che fu cacciato in esilio da Ottaviano Augusto, in quanto molesto alla sua politica di restaurazione morale ed etica, propone Enone come contr’altare della donna infedele e lussuriosa di regale genia, in primis le donne della sua famiglia.
Nel mito di Paride il contr’altare di Enone è la greca Elèna, moglie di Menelao, che non esita a seguire il bell’amante, dimentica dei suoi doveri di moglie e madre.
Enone è saggia oltre che fedele, ed è fieramente consapevole del suo merito: «Sono degna di diventare la sposa di un potente, non disprezzarmi se ho giaciuto con te sopra foglie di faggio: a un letto di porpora sono più adatta. Il mio amore è privo di rischi, nessuno ti fa guerra e il mare non trasporta navi per la vendetta. Davvero un brutto inizio anteporre alla patria una dona rapita: il marito giusta guerra ti muove» (Ibidem).
Non è degno di klèos (fama) un uomo che trascina in guerra il suo popolo per il letto di una donna, già sposata, già madre. Paride antepone il suo potere seduttivo alla sicurezza della patria, né valuta affatto le conseguenze. Sicuramente in questa noncuranza e leggerezza si dimostra archetipo del modello Berlusconi, che non poche vicende giudiziarie politiche e personali ha dovuto affrontare per il suo narcisismo seduttivo.
Non è saggio Paride che si affida a Elèna, donna che ha già tradito: «Non sperare fedele la spartana, lei che tanto in fretta ti è corsa tra le braccia, come l’atride Menelao grida l’oltraggio dell’adulterio anche tu griderai. Ella arde d’amore per te? ma così amò anche Menelao che ora giace, illuso, nel letto deserto» (Ibidem).
Nel Mito la femmina è sempre più saggia del maschio. Il maschio deve curare solo la gloria, il duello, il coraggio in battaglia. Questo dislivello, emotivo e concettuale, tra maschio e femmina è messo a fuoco dai poeti tragici, Euripide in particolare. Il valore che alla femmina/donna nega la politica greca, impegnata a resistere alle guerre dei barbari persiani, lo restituisce però in pieno la Letteratura.
La donna ha cervello e pensiero, ma in quella società guerriera servono più le armi e il combattimento che le profezie e le sagge intuizioni della donna. Enone è espertissima del valore medicale delle erbe, che però non valgono a curare la sua ferita d’amore: «Ahimè infelice, che l’amore non si può curare con le erbe!». Enone «rimane casta per il marito che pure la tradisce», e rifiuta persino l’amore del grande Apollo, mentre rinnova una solenne promessa d’amore e fedeltà al suo Paride: «Abbi pietà di una degna fanciulla! Non porto con me i Danai e le loro armi cruente, ma sono tua, ero con te fin dagli anni d’infanzia e tua, per il tempo che resta, chiedo d’essere ancora» (Ibidem).
Un diamante, pur sotto montagne di polvere, brilla comunque, come comunque e sempre brilla Enone, nonostante la scelleratezza della dimenticanza.