Cultura Scicli

Splende il crocifisso, restaurato, di San Michele

Grazie all'opera di mecenatismo di una donna rimasta nell'anonimato



Scicli - Una turista entrata per caso in San Michele Arcangelo, scorgendo quel Cristo deposto, affidato alle mani delle due restauratrici, ha insinuato il dubbio: “Così delicato, che l'artista che lo ha realizzato deve essere stato una donna”.
Ipotesi improbabile nel 1630, quando il lavoro di scultore e di artista era appannaggio solo degli uomini, ma intuizione così acuta da rendere plasticamente l'emozione. Chi ha raffigurato quest'uomo in Croce, agonizzante, ha avuto la delicatezza e la sensibilità di una donna. Anzi, di una mamma.

E' stato restituito alla comunità di Scicli, venerdì 6 gennaio, il Crocifisso della chiesa di San Michele Arcangelo di via Mormina Penna, dopo un'opera di restauro finanziata interamente da un privato che ha chiesto di mantenere l'anonimato. Un mese. Tanto è durata l'opera di recupero filologico di questa scultura in cartapesta della metà del Seicento. Venerdì, alla presentazione dell'opera restaurata, c'erano il Sovrintendente di Ragusa, Calogero Rizzuto, il sindaco di Scicli Enzo Giannone, l'assessore alla cultura Caterina Riccotti, le restauratrici della ditta Kermes Srl di Ragusa, Antonella Pancaldo e Alba Paolino, Carmelo Vitale, e l'assistente Simona Criscione; Biagio Gennaro, dell'ufficio tecnico della Curia di Noto, e poi, in un angolo, tra il pubblico che ha assiepato la chiesa, la signora che ha finanziato il restauro, non lontana da Luigi Nifosì, “che con tanto entusiasmo ha trasformato questa serata in un evento”, ha rimarcato Antonella Pancaldo. Padrone di casa era Don Concetto di Pietro, rettore della chiesa.

Un ritorno al passato, quando il mecenatismo era di imprinting privato, e i privati finanziavano la realizzazione di opere d'arte. E' stata la riflessione di Biagio Gennaro, di fronte all'attività di sostituzione, rispetto agli enti pubblici, in crisi finanziaria per le vicende note ai più, di una anonima benefattrice.
Un cantiere didattico, aperto, alle scuole, ai turisti, agli sciclitani, ha permesso, lungo un mese, a tutti di assistere al restauro. Antonella e Alba hanno lavorato in chiesa, accanto all'altare, per mostrare ai visitatori le delicate fasi dell'intervento, e per spiegare quante cure, quante cautele, quanti riguardi bisogna avere per riportare alla luce un'opera d'arte senza snaturarla, restituendone l'originale, e a volte, irrecuperabile, bellezza.
Cesello, lettura filologica, rispetto del manufatto, uso corretto dei materiali, gli stessi del tempo in cui l'opera fu realizzata. Sono le regole del restauratore, che non deve aggiungere, ma togliere, non deve migliorare ma interpretare, leggere e riconsegnare.

Degradato, sporco, coperto di polvere. Così si presentava il Cristo in Croce di San Michele. E' un “Cristo entierro”, con le braccia e la testa mobili, probabilmente perchè in occasione del venerdì Santo veniva deposto dalla Croce e portato in processione per le vie di Scicli.
“Entierro”, dentro la terra, letteralmente, in spagnolo indica la sepoltura e quindi una particolare processione con il Cristo morto diffusa nello stato di Milano in età barocca. Facile comprendere come tale tradizione sia arrivata nella Contea di Modica, enclave spagnola.

Le restauratrici hanno dovuto fare i conti con la carenza di colore, quando questo non era virato rispetto all'originale, con l'assenza di materia, con una carenza strutturale alle braccia (il destro era del tutto staccato dal corpo) e alla testa, staccata di netto dal busto e poggiata soltanto. In prossimità degli occhi, realizzati in pasta di vetro, mancava persino un pezzo di palpebra.
Fatto straordinario, a cingere i lombi del Cristo un gonnellino ebraico, il Talléd, un indumento che se da un lato rende omaggio all'origine ebraica di Cristo, dall'altra tradisce un gusto tipico del periodo in cui il Crocifisso è stato realizzato. La materia del perizoma è argento meccato con motivi floreali. L'opera è in cartapesta, una tecnica mista, che prevedeva un'anima in ferro e l'uso di canapa ingessata. Non era, la cartapesta, una scelta di arte povera, come si potrebbe pur pensare, quanto una opzione dettata dalla necessità di leggerezza nel trasporto della statua, che appunto veniva deposta una volta l'anno.
Dalla pulitura, momento di grande responsabilità, che va consumato in maniera graduale, rispettosa, conservativa, lasciando la patina di antico, fino alla stuccatura, operata come nel Cinquecento, con gesso di Bologna e colletta, o colla di coniglio, si è passati alle integrazioni pittoriche, con il puntinato, il sotto tono, il rigatino, la selezione cromatica a oro, e quindi la riverniciatura finale. Non è un'opera nuova, quella che oggi è possibile ammirare, ma una statua antica riportata allo splendore della sua epoca, nonostante i segni, evidenti, del tempo e dell'incuria umana.

Le restauratrici hanno incollato le braccia, restituendo alla statua l'originario movimento di chiusura, innestando al loro interno pelle di capretto, come nella stesura originale. Infine, hanno ripulito la cappella, dove il Crocifisso è collocato, con una integrazione pittorica e un protettivo finale.
Lo storico dell'arte Paolo Nifosì è intervenuto ricordando la centralità del tema della Crocifissione nella cultura europea e occidentale. Nel Crocifisso di San Michele colpiscono l'agonia e l'intensità del volto, gli occhi abbassati, la bocca semiaperta, che descrivono il momento della morte con grande verità. E dire che la provincia di Ragusa, e la Sicilia, sono una terra ricca e fortunata da questo punto di vista. Si stima che nell'Isola vi siano circa tremila crocifissi che testimoniano della pietà popolare per il momento del lutto e del sacrificio del Messia. A Scicli, ad esempio, si conserva, nella chiesa di San Bartolomeo, anche un crocifisso di 14 centimetri, un Cristo col colonium, una veste sacerdotale, e le incisioni greche ai fianchi, dove si legge “Questo è tuo figlio” e “Questa è tua madre”, accanto alle immagini di Giovanni e Maria.

Ma la storia dei crocifissi in Sicilia nel Seicento è caratterizzata dalla presenza di Frate Umile da Petralia e Frate Innocenzo da Petralia (quest'ultimo oscurato dal primo per fama e prestigio), riconoscibili da uno stile essenziale, asciutto, scarnificato.
Troviamo, sepolti nelle chiese, e sconosciuti, ora crocifissi in avorio, a volte di dimensioni che superano i 40 centimetri, misura tutt'altro che facile da gestire, ora crocifissi in cera (uno a Chiaramonte Gulfi in cui tutto si risolve nel volto vivido e sofferente del Cristo, di grande impatto plastico), crocifissi con perizomi merlettati nella parte superiore, con leziosismi inusitati, con un'accentuazione del motivo delle spine sul capo del Gesù, o una contorsione delle gambe e del corpo di grande effetto visivo. Dal Quattrocento all'Ottocento si passa dal volto immacolato del Cristo dell'iconologia di Michelangelo e di Brunelleschi a quello iperrealista e sanguinante di opere più crude, e forse veritiere.

Che datazione dare all'opera oggi restaurata? Probabilmente è stata realizzata fra il 1630 e il 1640, anche se resta da capire come sia finita in una chiesa settecentesca. Forse era prima custodita nella vecchia chiesa di Valverde, situata extra moenia, in prossimità del Convento di Sant'Antonino, e solo successivamente fu trasferito in San Michele, dalle ricche suore di quell'istituto religioso. Da allora fu forse portato in processione per qualche decennio, in occasione del Venerdì Santo, fino a un progressivo oblio.
Oggi, dopo tre secoli e mezzo, grazie a una benefattrice, il Crocifisso della chiesa di San Michele torna alla sua antica icasticità, restituito nella sua tensione religiosa e mistica alla comunità.


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