Cultura Scicli

Il Cristo con la gonna ha un dipinto gemello

Da La Lettura del Corriere della Sera del primo aprile

https://www.ragusanews.com/immagini_articoli/01-05-2018/cristo-gonna-dipinto-gemello-500.jpg Il Cristo di Burgos


Scicli - Una tela di origini spagnole che raffigura il Cristo Crocifisso è da alcuni anni attrazione cult per i visitatori che affollano Scicli, città tardo-barocca a Sud-Est della Sicilia. Molti di loro, in verità, entrano nella chiesa di San Giovanni Evangelista, nel centro storico (sito Unesco), soltanto dopo aver esplorato un luogo «profano», irresistibile meta del pellegrinaggio: l’ufficio del Commissario Montalbano, allestito nel Palazzo del Municipio, set della fiction tratta dai libri di Camilleri. La chiesa di San Giovanni Evangelista si trova proprio di fianco al Comune. Pochi passi, una breve scalinata, l’ingresso. Il quadro secentesco (volgarmente ribattezzato «Cristo con la gonnella») spicca sulla parete a sinistra della navata centrale. Stupefacente per chi lo guarda. Il suo fascino sta nella particolare iconografia.

«Il corpo di Cristo, nudo fino al bacino, è coperto dai fianchi alle caviglie da una veste bianca chiaroscurata, con variazioni di grigio, a larghe pieghe verticali, orlata da una fascia a merletto», scrive Paolo Nifosì, critico d’arte, autore della scheda di restauro dell’opera. «...Il corpo è martoriato con una quindicina di ferite lungo le braccia e il torace, lacerato da una larga ferita sanguinante. I piedi sono fissati sulla croce da un chiodo sotto il quale si trovano due coppe argentate e un uovo di struzzo».

La tela è denominata il «Cristo di Burgos» e fino a poco tempo fa v’era ragione di ritenere che fosse un unicum nel nostro Paese. Invece no. In modo del tutto casuale si è scoperto che un dipinto gemello si trova in un oratorio privato di Gravedona (Como).
La vicenda di come sia giunto nel paese dell’Alto Lago è diversa ma intrigante quasi come quella che riguarda Scicli, ricostruita da Paolo Militello, docente di Storia moderna all’università di Catania, e ripresa nel suo saggio in uscita Storie mediterranee, con la prefazione di Maurice Aymard (Carocci editore). La narrazione si trova nel terzo capitolo: Sulle tracce del «Cristo di Burgos». Storie di uomini e dipinti del Seicento, tra Castiglia, Lombardia e Sicilia. «L’importazione della tela nella città siciliana si deve probabilmente a un nobile spagnolo, Domingo de Cerratòn, nato nel 1658 a Villanasur, uno dei villaggi di Burgos — racconta lo storico —. Paggio e poi maggiordomo del VII duca di Veragua, Pedro Manuel Colòn de Portugal (uno dei discendenti di Cristoforo Colombo), Domingo seguì il suo signore nei vari spostamenti fino a Palermo dove, nel maggio 1696, Colòn fu investito del titolo di Vicerè di Sicilia. Lo stesso anno in cui Domingo era entrato nell’Ordine di Santiago; carriera prestigiosa, per un uomo capace e di fervente spirito religioso».
«Con il suo duca, Cerratòn resta a Palermo diversi anni, fino a quando — continua Militello — Veragua termina l’incarico e lascia la Sicilia. Le strade si dividono e Domingo, quarantenne, diventa comandante della Sargenzia di Scicli, una delle dieci piazze d’armi del Regno. Qui, si stabilisce con la moglie Tereza e la prole. Il dipinto del “Cristo di Burgos”, in suo possesso, con tutta probabilità rientra nel trasloco dei beni di famiglia, assieme a vestiti, mobili, gioielli...». Succede, poi, che, alla morte di Domingo e dei due figli (insieme, giovanissimi, a causa di una «febbre maligna»), Donna Tereza si fa suora presso il Convento delle Monache Benedettine, portando in dono alla Comunità il «Cristo di Burgos». (Per inciso, il cenobio benedettino di Scicli fu fondato nel 1687 da due monache provenienti da Palma di Montechiaro, discepole di Suor Maria Crocifissa, la Santa dei Tomasi di Lampedusa. Tre secoli dopo, ricordata nel Gattopardo come la «Beata Corbera»).
Va sottolineato che tele simili a quella importata in Sicilia da Domingo de Cerratòn, dipinte da autori diversi (il più noto è Mateo Cerezo el Viejo), sono sparse in tutta la Spagna e nel mondo latino-americano, grazie all’opera di evangelizzazione degli Agostiniani.

Ma qual è l’origine dell’iconografia? Una storia avventurosa rivela che l’immagine trae ispirazione da un’antica scultura custodita nella Cattedrale di Burgos, da secoli oggetto di culto, venerazione e «fonte di miracoli». Uno degli aneddoti ad essa riferiti ha per protagonista la regina Isabella di Castiglia che rischiò di morire dallo spavento quando, accarezzata la statua, questa si mosse all’improvviso. La narrazione dell’approdo a Burgos nel 1308 della scultura «miracolosa», attribuita a Nicodemo, discepolo di Gesù, è leggendaria: un mercante spagnolo in viaggio per mare, la sua forte devozione a Sant’Agostino, la tempesta che lo coglie all’improvviso, l’apparizione fra le onde di una barchetta contenente una cassa di legno dentro la quale ve n’è una di vetro che svela il Cristo in croce... «La statua era impressionante, ma allo stesso tempo meravigliosa — scrive Militello —. Le membra del Cristo sofferente, rivestite in cuoio, erano morbide come quelle di un corpo vero, così come veri sembravano i capelli e le unghie... Il Cristo martoriato era nudo, tranne i fianchi e le gambe, coperte fino alle ginocchia da un panno antico rimasto incorrotto».
Marta Negro Cobo, attuale direttrice del Museo di Burgos, puntualizza: «La scultura si trova oggi nelle stessa cappella della Cattedrale, ma il panno che la ricopre cambia periodicamente e ha colori diversi, seguendo il Calendario Liturgico».
Coincidenza vuole che la narrazione sul «Cristo di Burgos» ci porti a un’altra scultura e a un’altra leggenda, quella del Volto Santo di Lucca, venerato a partire dall’anno 742. Si tratta di una statua lignea (anch’essa attribuita a Nicodemo), collocata dentro una cappella della Cattedrale di San Martino della città toscana. «In effetti — conferma Vittorio Sgarbi — l’analogia fra la statua del “Cristo di Burgos” e il Volto Santo c’è tutta. Non solo per il soggetto ma anche per il modo e il mezzo attraverso i quali i “due Cristi in croce” giunsero a destinazione. Nel caso italiano, ecco una nave “miracolosa” che, senza vele e opera umana, in epoche lontane fece rotta verso il porto di Luni sul mar Tirreno, trasportando la scultura. Che ebbe poi dimora definitiva a Lucca».

Sul finire degli anni Ottanta del Novecento il dipinto del «Cristo di Burgos» conservato a Scicli giaceva ancora, abbandonato, nella sacrestia della chiesa di San Giovanni (qui era stato portato dall’attiguo monastero, incamerato nel Regno d’Italia e «cancellato» agli inizi del Novecento); quindi, per merito di don Paolo Ruta, parroco appassionato d’arte, venne ripescato dall’oblio e fatto restaurare. Per qualche tempo rimase appeso nella stessa sacrestia; finchè nel 2013 ebbe finalmente degna collocazione.
Un attento studio del fotografo Luigi Nifosì, compiuto sull’impercettibile firma dell’opera, avrebbe poi rivelato il nome dell’autore e la data: Don Juan de Parlazin (o Parlazerin) fecit anno 1696.

https://www.ragusanews.com/immagini_banner/1745335481-3-baps.png

A questo punto è venuto il momento di narrare le vicissitudini del secondo quadro «riscoperto» nel Nord Italia, custodito nell’oratorio di Gravedona, raffigurante il medesimo Cristo di Burgos. Un dipinto praticamente ignorato, fino a che... E la storia ricomincia da Scicli. Precisamente da una signora dell’Alto Lago di Como, che qualche anno fa, viaggiando in Sicilia, arriva nella città barocca del Sud-Est. In visita alla chiesa di San Giovanni, lo sguardo di lei si posa su un dipinto. Sorpresa: è identico a quello che conosce, per averlo notato a Gravedona. Ne parla con la guida turistica, e così la notizia dell’esistenza della tela gemella si diffonde fino ad arrivare alle orecchie di Paolo Militello. Lo storico, pure sorpreso, vuole capirne di più. Comincia così nuove ricerche che lo porteranno a ricostruire il percorso Spagna-Italia del secondo «Cristo di Burgos». Consulta testi e documenti, ma soprattutto trova la chiave di volta mettendosi in contatto con Pieralda Albonico Comalini, insegnante di Gravedona, esperta di storia e arte locale.
Come è approdato il «Cristo di Burgos» sulle rive dell’Alto Lario? Come e perchè si trova nel piccolo oratorio (oggi proprietà della famiglia Motti), intitolato alla Madonna della Soledad?
La risposta ha radici nel passato remoto e conduce al nome di Giambattista Giovannini, medico, originario del paese lariano, emigrato nella penisola iberica. A Madrid diventa chirurgo personale di Don Giovanni d’Austria e del re Carlo II di Spagna. Fatto sta che Giovannini, legato alla sua terra natale, nella seconda metà del Seicento fa edificare l’oratorio dove nel 1688 viene collocata la statua lignea della Vergine, di provenienza spagnola. Alla sua morte (1691) tutti i beni personali, come indicato nel testamento, traslocano a Gravedona. Fra questi, c’è il quadro spagnolo del Crocifisso.
Nel 2016, il frutto delle ricerche dà origine a una pubblicazione curata dalla Società Storica Altolariana, a firma di Pieralda Albonico Comalini, Paolo Militello e Francesco Pellegrino. Il terzo autore, sciclitano, da anni vive a Madrid e si dedica con passione alla ricerca di «perle» negli archivi storici. A lui si deve il recupero e la traduzione del testamento originale di Giambattista Giovannini, scritto in lingua spagnola.

L’ultima tessera del mosaico si compone a Gravedona. E riguarda un episodio curioso legato alla visita all’oratorio dell’Alto Lario, con l’obiettivo di vedere anche l’altro Crocifisso. L’edificio è privato, occorre prendere accordi. Ci accompagna Caterina Bongiasco, rappresentante della Pro Loco. Apre il portoncino, ed ecco, al centro, la Madonna de la Soledad; a sinistra, il quadro. (Malandato come l’edificio e gli interni dello stesso). E' proprio il «Cristo di Burgos».
«Le racconto un episodio — dice la guida a “la Lettura” — Una dottoressa originaria di Scicli, che vive e lavora a Gravedona, ha fatto per prima la scoperta; all’inverso, però». Cioè? «Vedendo il dipinto, stupita, disse che era identico a quello della sua città, appeso nella chiesa di San Giovanni».
Ma qui la segnalazione passò inosservata, a differenza di ciò che accadde nel centro siciliano dopo la scoperta della turista lombarda. Resta il quesito: siamo certi che in Italia non esistono altri dipinti che raffigurano il «Cristo di Burgos»?


© Riproduzione riservata