Verona - La 53° edizione del Vinitaly si è aperta e chiusa con numeri da capogiro: circa 4600 espositori da 35 nazioni diverse sono accorsi alla fiera del vino più importante d’Italia.
Il Vinitaly è un mercato, produttori e compratori si affascinano in uno scambio di sorrisi, strette di mano, biglietti da visita e ovviamente calici. La fiera è la fiera, si sa, con le sue luci, il traffico intorno per ore, l’organizzazione curata nel più piccolo dettaglio, le pazienti ma veloci code per entrare, le chiacchiere e gli ammiccamenti: se “business is business”, questo va fatto alle luci della ribalta e, tra roteanti calici tintinnanti, tutto è marketing e tutto sta sotto i riflettori, com’è giusto che sia.
Tuttavia, in fondo al padiglione Sicilia, qualcuno si ostina a parlare di tutt’altro, di viti, vitigni e della gente che li coltiva con le mani sporche di terra e il sorriso di sole. Salvo Foti, enologo sicilianissimo, indiscutibile autorità in materia di tutto ciò che gronda dalle vigne tra l’Etna e il Ragusano. Lo incontriamo nello stand della Cantina Gulfi (di cui da tanto è uno dei pilastri portanti) in cui ci accoglie, neanche a dirlo, con un calice in mano di Rosà, il rosato di casa Gulfi, fatto con uve 100% Nero d’Avola.
Minando una delle più banali certezze enologiche, ovvero che il Nero d’Avola non può che essere appunto nero, ovvero rosso, Foti ci illumina su questo freschissimo, delicato, profumato e “sbiadito” rosato non ancora rosso.
Come mai negli ultimi anni assistiamo sempre più spesso a vini che sembrano “altro” da quello che effettivamente sono: i bianchi ottenuti da uve nere, il rosato fatto dal Nero d’Avola. Non si sta cercando di forzare un po’ la natura?
Dipende da come si ottiene, il nostro rosato assume questo colore grazie alla malvina, il colorante naturale del Nero d’Avola che, grazie alla precoce maturazione che avviene a San Lorenzo (Siracusa), viene raccolto con circa due settimane di anticipo. Osserviamo la natura e ci adeguiamo ma non siamo certo i primi a farlo: ci sono stati vini così particolari come lo champagne che sono nati proprio perché l’uva non maturava bene. Si parla sempre più spesso di “vini naturali”, una definizione che fa un po’ sorridere perché la vinificazione non esiste in natura, è sempre un procedimento molto umano! La vite è una liana che, lasciata libera, si arrampicherebbe ovunque, l’agricoltura è sempre una forzatura, una sorta di rapina che l’uomo compie. D’altro canto è anche vero che le dinamiche oggi sono sempre più commerciali, si cerca sempre un’ultima novità con cui stupire il mercato, e purtroppo il settore risente del “business a tutti i costi”, anche a costo di sacrificare quello che è veramente importante, il rispetto del territorio e della gente che lo lavora.
A proposito di business, oggi i corsi sul vino sono sempre più numerosi, spesso cari eppure frequentatissimi. Non dovrebbe essere un vantaggio per il settore?
È paradossale che oggi che l’informazione è alla portata di tutti, ci sia un sempre maggiore calo di consapevolezza. Il vino non è un bene primario, se ne può fare a meno ma ormai c’è un po’ una moda che colpisce il settore, così come quello gastronomico. Non è necessariamente sbagliato ma a questo crescente interesse non segue ciò che ci si aspetterebbe, ovvero una maggiore conoscenza.
Per il cibo è lo stesso: si parla tanto di stagionalità ma poi si pretendono tutti i prodotti tutto l’anno! Tutti vengono al Vinitaly perché è una fiera internazionale ed è giusto esserci ma quanti vanno effettivamente a vedere i vigneti? Oggi sembra quasi che si bevano più le etichette del vino, dei posti da cui questo proviene si parla poco, e pensare che nel prezzo di una bottiglia l’uva è l’elemento che incide meno! L’ideale sarebbe fare degustazioni alla cieca, senza vedere le bottiglie, e la domanda più arguta per capire cosa si stia bevendo dovrebbe essere “quante viti per quante bottiglie”?
Il vino quindi si studia tanto ma forse non nel modo appropriato? Quale sarebbe il giusto approccio? Ad esempio quale percorso di studi ha consigliato ai suoi figli che hanno seguito le orme paterne (nell’azienda “I Vigneri di Salvo Foti” sull’Etna)?
Bisogna ripartire dalla vigna, su questo non ho dubbi. Sono poi fondamentali entrambi gli aspetti dell’enologia, l’approccio pratico e quello scientifico. I miei figli ne hanno scelto uno ciascuno: quello che studia in Francia, in Borgogna, ad esempio ha svolto il 50% del suo percorso di studi in azienza (lì lavorano molto sul campo), l’altro invece è più interessato alle componenti del suolo. Anche Raffaele Catania, che col fratello Matteo gestisce la Cantina Gulfi (un tempo totalmente guidata dal padre Vito, recentemente scomparso e costantemente ricordato da tutti con stima e affetto, ndr), dopo aver abbandonato la carriera da avvocato, è andato in vigna a imparare.
Con la crisi economica, è vero che molti giovani sono tornati alla campagna ma è anche vero che oggi è carente una manodopera qualificata. Il problema più serio è che a mancare sono i formatori: i cosiddetti “figli d’arte”, che sono cresciuti nelle vigne, sono fortunati ad avere qualcuno che possa insegnare loro i segreti del mestiere, quelli acquisiti con l’esperienza, ma a tutti gli altri manca da chi imparare. Purtroppo scontiamo le politiche intraprese negli ultimi 30 anni quando c’è stata una vera e propria migrazione che ha visto tantissima gente spostarsi dalle campagne verso le fabbriche e dal sud verso il nord o l’estero. Manca oggi qualcuno che formi i giovani. Chi coltiva chi coltiva?
Eppure verrebbe da dire che dal nostro passato, quello delle cosiddette “putie del vino” ad esempio, passi in avanti se ne siano fatti eccome. Il suo libro “La montagna di fuoco” si chiude con il monito “chi coltiverà le nostre vigne”. Oggi il vino è quasi un argomento d’élite, non si fa che parlarne, eppure c’è una seria preoccupazione per il futuro?
Certo, la qualità era più bassa, nelle “putie del vino” spesso il proprietario usava diluirlo o aggiungere dello zucchero per addolcirne il gusto e il cliente lo beveva così, con un uovo sodo o un’acciughina. Bassa era anche la considerazione che si aveva di chi lavorava in questo campo: nel 1986 quando mi presentarono a un noto avvocato ragusano, mi chiamarono “viddanu” e quello, sorpreso e ironico, rispose “ma perché? per fare il vino serve il dottore”?!
I passi avanti ci sono stati senz’altro, però oggi rischiamo che la moda prenda il sopravvento, che ci si interessi esclusivamente alla cantina dimenticando il vigneto, senza il quale quella non esisterebbe. Dovremmo chiederci “che valore diamo al terreno e alla gente che lo lavora”?
La risposta è la qualità del vino.
Nella foto, Raffaele Catania e Salvo Foti al Vinitaly