Immangiabile, di pessima qualità, lontanissima per odore e verosimiglianza da bistecche e salcicce reali: c’è ancora da lavorare sulla cosiddetta “carne non carne”, riprodotta artificialmente con la stampante 3D. Una tecnologia estremamente sofisticata arrivata da tempo anche in Italia, ma che per fortuna non ha ancora sfondato nel settore culinario. Già dal 2014 la Barilla “stampa” pasta fresca e progetta un nuovo elettrodomestico che entri in case e ristoranti al posto della macchina impastatrice. Ma penne e rigatoni sono pur sempre prodotti a base vegetale. La mucca invece, nell’immaginario che vorrebbero ingannare con aromi liquidi ed edulcoranti, resta legata a un essere vivente, che pascola e cresce. I filamenti emessi dal dispositivo 3D riescono a ricreare a loro modo la consistenza delle fibre di una fettina, ma nel prodotto non c’è nulla del maiale o del vitello, bensì un composto vegetale mischiato - per infondergli il “gusto carne” - a una molecola equivalente dell’emoglobina, contenente ferro, estratta da piante ma ricavabile anche dalla fermentazione del lievito transgenico, dunque replicabile in laboratorio. All’estero sono molto più interessati alla novità che in Italia. Meno grassi e calorie, stesso effetto visivo sanguinolento. Ma anche meno proteine e zero gusto, secondo quanto riferisce chi l’ha provata.
Perché tutto questo? Un po’ per sperimentare fino a dove può arrivare la stampa 3D e un po’ - secondo vegani e animalisti - per ridurre gli allevamenti intensivi, visto che wurstel e burger di seitan, tempeh e soia non hanno convinto molti consumatori. Basta tuttavia del buon senso per bocciare questi orrendi allevamenti, crudeli per gli animali - privati della libertà e stipati in alveari - distruttivi per habitat e terreni, e dannosi per la nostra stessa salute trattandosi di bestie nutrite spesso con antibiotici e farine animali responsabili di mucche pazze, influenze aviarie e febbri suine. La carne di un pollo ruspante, che razzola all’aperto, è più scura, saporita e resta attaccata all’osso rispetto alla coscia di un pollo cresciuto in 50 cm di gabbia. Il problema è che più che alla salubrità si punta all’estetica, più che nella ricerca di ingredienti si sperimenta su colore e compattezza del prodotto finale. Cioè su un’illusione ottica che, dalla retina, dovrebbe trasferirsi psicologicamente al palato. Il gusto può essere soggettivo ma che un mix di barbabietole, piselli e alghe abbia lo stesso valore proteico e apporto energetico di una bistecca - specie per un individuo in fase di crescita - è ampiamente smentito da dietologi e nutrizionisti d’ogni schiera. Se bisogna pure imprimergli gusto e aspetto-carne, il rischio è creare un composto processato davvero malsano. Vero che già ci rimpinziamo di alimenti non sani, ma appunto per questo non si vede l’opportunità - anche etica - di implementarne l’uso di un ennesimo che non ha nulla di bio.
L’anelito al ritorno alla natura e alle tradizioni - tanto sponsorizzato dal marketing gastronomico, soprattutto siciliano - stride non poco col ricorso ad additivi che snaturano artificialmente il sapore originale della verdura, facendone inchiostro da cartuccia per apparecchi capaci di realizzare qualunque oggetto tridimensionale da un modello digitale. Sono un’infinità le applicazioni e i materiali della stampa 3D: dall’aeronautica alla gioielleria, dalle plastiche ai metalli. Durante l’emergenza Covid sono tornate utili, ad esempio, per stampare guanti e mascherine. L’alimentare, però, è un’altra cosa: finisce dentro di noi. Negli Usa sono avanti, pure Bill Gates e Richard Branson finanziano l’idea. Ma non mancano le startup, anche italiane. Difficile però credere a missioni umanitarie quando tanta scienza potrebbe essere messa al servizio della biodiversità e dell’agricoltura vera, invece che al confezionamento di hamburger finti. Senza contare che la novità taglierebbe milioni di lavoratori in tutto il mondo, bastando un amalgama vegetale e un software a sostituire mattatoi e macellerie con professionalità non convertibili. Lasciamo stare la tesi, come per gli ogm, che aiutino il clima e addirittura risolvano la fame dei paesi poveri: Onu e Fao ripetono da decenni come scarti e sprechi dell’Occidente bastino e avanzino da soli a sfamare un altro continente. Quello che ci vuole è la volontà. Non ci sarà innovazione che tenga, finché mancheranno l’interesse e l’intenzione di risolvere le piaghe del pianeta. Il pericolo non è nella tecnologia, ma sempre e soltanto nell’uso che scegliamo di farne.