Ragusa - La mostra “Caravaggio - ultimo approdo” allestita a Ragusa, all’interno della chiesa della Badia, ha fatto parecchio discutere non solo gli addetti ai lavori, ma anche l’intera comunitaÌ€ iblea, gli appassionati d’arte e i turisti che si trovavano di passaggio. Sappiamo tutti che il motivo di discussione riguarda l’autenticitaÌ€ del dipinto protagonista di questo evento, il San Giovanni Battista giacente, un olio su tela proveniente da una collezione privata maltese, attribuito per certo dai curatori della mostra, con la conferma dalle stesse autoritaÌ€ cittadine, a Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, in particolar modo all’ultimo periodo stilistico dell’artista lombardo.
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Il titolo di questo evento rimanda, quasi per caso, alla grande mostra “Caravaggio l’ultimo tempo 1606-1610”, allestita nel 2004 nelle sale del Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli, in cui vennero esposte, insieme a nuove proposte attributive e ad alcune copie antiche, diversi dipinti autentici tra i piuÌ€ significativi della progressione stilistica dell’ultimo periodo, il periodo meridionale, oscuro e tenebroso, convulso e dinamico, tremendamente dipendente dalle vicissitudini dell’intenso vissuto esistenziale dell’artista. Bene, il dipinto esposto a Ragusa, a quanto pare, dovrebbe appartenere proprio a questa fase stilistica, in cui la pittura presenta un genere piuÌ€ essenziale e rapido, dove la pennellata decisa risulta povera di materia pittorica. In particolar modo il dipinto in questione sarebbe una delle tre opere “li doi San Giovanni e la Madalena” (la Maddalena e due San Giovanni Battista di cui uno si trova nella Galleria Borghese a Roma) realizzate probabilmente nel 1610 a Napoli, quando l’artista si imbarca dal porto di Chiaia su di una feluca, portando con seÌ i tre dipinti destinati al cardinale Scipione Borghese.
La lettura dell’opera in questione risulta ardua per le condizioni in cui versa, data la presenza di una superficie pittorica rovinata e una stesura molto lacunosa in alcune sue parti. Nonostante tali difficoltaÌ€, possiamo scorgere alcuni elementi iconografici e stilistici che ci rimanderebbero all’ultima fase pittorica dell’autore lombardo quali l’invenzione iconografica, il manto panneggiato rosso presente anche in alcuni suoi ultimi dipinti, il rapporto proporzionale tra la figura e lo spazio, lo sfondo appena accennato dal variare delle tinte scure e caratterizzato da pennellate ampie e rapide. Diversamente, cioÌ€ che risulterebbe meno convincente credo sia l’assenza della pennellata decisa ed energica, nella quale, solitamente, quei tocchi sicuri e sintetici di materia pittorica definiscono i volumi, lo spazio, la luce, l’espressione del viso. EÌ€ come se venisse meno quella morbidezza plastica che consente alla figura di emergere gradualmente dal fondo oscuro e rivelare lo spazio che la circonda, ovvero la profonditaÌ€ tra i diversi piani. Si osservi come lo stacco tra la figura del San Giovanni e il fondo bruno appaia brusco, quasi come se l’immagine del santo fosse incollata sulla tela. Qualche dubbio risiede anche osservando il profilo tagliente del viso, nel quale l’espressivitaÌ€ quasi assente e la poca volumetria conferiscono uno scarso naturalismo all’insieme.
Dunque, l’attribuzione risulta davvero impervia e la figura del “conoscitore” diventa indispensabile in quanto la forma artistica, lo stile, si presenta attraverso connotati fattuali e materiali da esaminare attraverso un’attenta analisi stilistica e iconografica. A tal proposito Ferdinando Bologna, eminente storico dell’arte, in un suo saggio evidenziava come “nessuno storico dell’arte degno di questo nome puoÌ€ permettersi di non essere innanzitutto un buon conoscitore”, pertanto proseguiva con l’affermare che risulta necessario “essere conoscitori innanzitutto, ma per divenire storici, percheÌ lo scopo finale eÌ€ la piena storicizzazione del fatto indagato”.
Tornando alla questione ragusana, l’obiettivo principale credo sia stato provare a creare un grande evento, quasi di caratura nazionale, eccezionale in una cittaÌ€ come Ragusa, una sorta di operazione di marketing capace di frastornare e ammaliare un potenziale pubblico nel nome del grande artista lombardo: che sia opera di Caravaggio o no forse non importa, risulta invece essenziale che se ne parli e che la gente accorra copiosa in visita alla mostra, bisogna fare cassa. La poca chiarezza riguardante la questione credo sia mancanza di rispetto nei confronti dei cittadini, delle comunitaÌ€ locali, ma soprattutto del “consumatore finale”, il visitatore. Non reputo corretto presentare al pubblico come autentico un dipinto dove la fase attributiva risulta debole e incerta per la mancanza di elementi decisivi, di una documentazione completa e di ulteriori studi critici. Nell’insicurezza dell’attribuzione, senza nulla togliere alla qualitaÌ€ pittorica del dipinto (in particolare la parte inferiore del corpo del santo), sarebbe stato opportuno e prudente indicare nella didascalia la dicitura “ignoto caravaggesco”, “scuola caravaggesca” o magari il nome nel noto artista affiancato dal un bel punto interrogativo.
Una nota a parte merita il costo del biglietto che risulta eccessivo in relazione al contenuto, basta aggiungere qualche euro per visitare un grande museo o una pinacoteca nazionale, luoghi stracolmi di dipinti autentici che documentano l’esuberante stagione della pittura barocca italiana.
Attualmente, sempre nel nome di Caravaggio e del suo ultimo periodo stilistico, sono state allestite due interessanti mostre al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli: una ha per titolo “Oltre Caravaggio, un nuovo racconto della pittura a Napoli”, l’altra “Il patriarca bronzeo dei Caravaggeschi: Battistello Caracciolo (1578-1635)”. Da queste iniziative risulta evidente come il maestro lombardo abbia lasciato un segno indelebile nella storia della pittura meridionale, cominciando proprio dall’antica capitale viceregnale, nella quale diversi pittori accoglieranno la sua rivoluzionaria ereditaÌ€ stilistica e la diffonderanno nel corso del Seicento in tutto il Meridione, con echi che si dipanano addirittura oltre la soglia del Settecento.
Nel 1905 Roger Fry scriveva come Caravaggio fosse “il primo pittore che procede non per evoluzione ma per rivoluzione”, una rivoluzione chiassosa direi, ancora una volta, capace di suggerire nuovi spunti di riflessione, capace di originare accesi dibattiti, insomma, capace di far parlare del suo artefice.
Antonio Romano