«Come stai? A me, in questo momento… è complicato. Dipende da dove la guardi, diciamo. Alla fine credo che la risposta più onesta sia “bene”. Sto bene. D’altra parte non sarei qua. Poi sono uno che ha passato l’estate in un ospedale, ero al San Raffaele, e se passi molto tempo all’ospedale lasci giù dei bei pezzi di te e quando esci guarito o meno guarito hai comunque un cammino da fare per recuperare pezzettini e pezzettoni. Ed è proprio una specie di salita. Non dico che sei una pianta, però… mi ricordo che dovevo lavarmi i denti ed ero così debole che non riuscivo a fare il gesto di lavarsi i denti, che è una delle cose più semplici che si possa fare, e tutto quello che potevo fare era tenere fermo lo spazzolino con il braccio e poi con la testa zam zam zam [muove la testa a destra e sinistra]. Mentre facevo questa cosa dicevo “guarda il corpo dove ti porta, la vita dove ti spinge…". Poi pensavo “uscirò mai da tutto questo?”. Adesso vado benissimo anche di rovescio. Non c’è problema, mi faccio anche la barba. È un grosso cammino che non è finito, ci sono ancora tante cose da recuperare. Il salto con l’asta non lo faccio. C’è una lentezza implacabile, ma è lentezza». Così Alessandro Baricco ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa su Nove.
La malattia
Sulla malattia e il rapporto con il proprio corpo: «Penso che io e “lui” abbiamo lavorato insieme tutta la vita, e lui dei due – inteso del mio corpo e della mia mente - è quello che è arrivato sempre un po’ prima sulle cose, spesso cercando di farmele capire. Quando sei giovane non senti niente di quello che viene dal corpo, impari poco a poco. Però alla fine penso che lui sia un pezzo di me che lavora e si muove armonicamente con gli altri pezzi. Non l’ho mai vissuto come una zavorra che mi è accaduto di portare in un viaggio assai più raffinato che avrei sognato e che volevo fare. Il mio corpo è il mio viaggio e anzi, se penso a quante cose nella vita è lui che le detta comincio a pensare davvero che il maestro è lui. Ci sono delle esperienze belle e brutte. Gli attacchi di panico: è una cosa del corpo geniale! Tu non stai bene al mondo, non vuoi dirtelo, non lo sai, non hai tempo di dirtelo, ci pensa il corpo. On, off, ti spegne, sei come morto ed è una cosa che ti accompagna tutta la vita. Si risolvono gli attacchi di panico, lo voglio dire a quelli che ce li hanno, però quelli che hanno avuto gli attacchi di panico sono un certo tipo di umani, e gli altri sono diversi. Anche nella parte positiva però, se si pensa a quante vite sono state segnate dal desiderio per un uomo, per una donna… in quel tipo di desiderio c’entra anche la mente, c’entra un certo istinto, una forma di spiritualità persino, però il corpo di quella danza lì sta sempre al centro, è lui che decide. Ti fionda intere parti di vita in una direzione. Quando mi è successa questa cosa ho pensato “lo sapevo, lo sapevo che prima o poi me l’avresti detto. Adesso vediamo di capirci”, siamo stati insieme e abbiamo vissuto dei momenti pazzeschi».
La scelta
Sulla scelta di comunicare pubblicamente la malattia: “Era un po’ una cosa pratica: cominci a scomparire, ti arrivano inviti e la gente inizia a chiedersi come mai sei diventato così stronzo che non vai nemmeno al tuo liceo a parlare. E allora a un certo punto lo devi dire che non stai bene, che hai preso questa via e lo devono capire. Un tempo non c’erano i social e ora è un sistema per farlo. A me è accaduto due volte di farlo, ho dato un messaggio pubblico in delle curve fondamentali di questo mio cammino. Mi è sembrato molto pratico e molto utile, mi ha regalato una sensazione che non mi aspettavo, lo dico sinceramente, ho scoperto che c’è un sacco di gente che mi vuole bene. Ho girato anche il mondo, arrivano con i loro libri eccetera… Ma quell’ondata di affetto vero, di gente che mi doveva qualcosa o che aveva passato con me pezzi della sua vita, che aveva dato senso a delle nefandezza della sua vita per cose che avevo detto, scritto, commentato… persone a cui in quel momento veniva a mancare un maestro diciamo, con cui avevano un rapporto… poi io ho un’esperienza e un passato da persona piuttosto mal sopportata perché un po’ prepotente, un po’ arrogante, troppo di successo, avevo tutto, non ero abituato che il mondo mi volesse bene sinceramente, un ristretto mondo. Mi ricordo che ero già all’ospedale e in quelle 48ore mi accade che mi si riversa addosso sta roba… è stata un’esperienza per me molto forte. Dopodiché, questa cosa che le malattie dei VIP - diciamo così, mi auto-iscrivo in quella lista lì - oggi siano diventate una notizia prelibata, è una cosa che mi auguro di non aver creato anche io. Ognuno davanti a quei momenti della vita così difficili fa quel che cavolo gli pare. Però è scattato un giro un po’ virtuoso e vizioso per cui cominci a vederne uno poi si inanellano, te la raccontano nei dettagli… ecco quello, non perché sono torinese e sono molto riservato, ogni tanto temo generi un effetto paura, che scorri e vedi passare uno, due, tre, con queste malattie serissime. Non so se diamo il messaggio giusto, vorrei dire che la mia malattia, che io sappia, se la prende uno su centomila. State tranquilli tutti voi altri 99.999 che ci ho pensato io. Stiamo parlando di anomalie, non dobbiamo pensare che la malattia grave sia l’esperienza degli umani, non è così».
Le paure
Sulla paura nella contemporaneità: «La paura è un lusso che noi ci permettiamo, commettendo un errore. La vendiamo molto, i media la vendono molto, perché è una merce che piace, la diffondiamo molto, la cerchiamo, ma è uno degli errori che stiamo commettendo. Di solito si fa anche questa cosa un po’ machista, un po’ di destra, di confrontarla e metterla da una parte e dall’altra c’è il coraggio, come a dire “siamo una civiltà che ormai ha tanta paura e non ha più coraggio”. È difficile da capire ma per esempio una cosa che io ho capito è che la paura c’entra con il coraggio, può darsi, ma c’entra con il desiderio alla fine. Cominci a smettere di desiderare e cominci ad aver paura. Romeo che scala la parete d’edera in un posto in cui se lo beccano gli altri gli fanno un culo che non finisce più, le famiglie che si odiano, lo fa perché è coraggioso? No, lo fa perché Romeo è giovane, perché nel punto in cui dovrebbe davvero essere coraggioso di quella tragedia non lo è, quando muore la donna che lui ama lui si ammazza, non è coraggioso, il coraggioso vive. Romeo non è un uomo coraggioso, è un uomo che desidera da morire. Fai queste cose pazzesche quando hai qualcosa che desideri ed è più forte di te. È nell’esperienza quotidiana della gente, è la voglia che sconfigge la paura. Quindi non è tanto una questione di moltiplicarsi della paura quanto del decantare e decadere dei desideri. E questo mi fa incazzare perché c’è proprio una civiltà che è diventata incapace di desiderare cose diverse dalla settimana bianca, o la macchina con il riscaldamento al volante. Io ho una macchina con il riscaldamento al volante, ma come se lo sono studiati?! Come possono pensare che io abbia spazio di desiderio per un volante riscaldato? Siamo avvoltolati da una serie di desideri, ma è quello che “spara” che fa fuori la paura».
La modernità
In cosa il tempo moderno è migliore di quello in cui è cresciuto: «In tante cose, e non dobbiamo fare l’errore di dimenticarcelo. Per esempio: chissà quante volte tu hai parlato del pericolo della ‘bolla’, la bolla in cui viviamo. Ne avrai parlato con i tuoi figli, perché sei una persona intelligente e quello della bolla è un ragionamento intelligente. È una delle cose più semplici che noi temiamo della civiltà digitale. E lo diciamo in maniera veramente schietta. Ora, ferma tutto. Riacquisisci una forma di lucidità che è quella che noi dovremmo avere alla nostra età e prova a tornare a quando eri piccolo. Io quando ero piccolo avevo un telegiornale che mi raccontava il mondo, vivevo in Italia, a Torino, in alternativa disponevo de La Stampa e cioè il giornale dell’uomo più ricco d’Italia. Avevo anche un’altra fonte di informazione che era la parrocchia, io ero credente, e gli scout, un allegato. In quegli anni c’era la guerra del Vietnam, io nella mia bolla avevo la minima possibilità di pensare qualcosa di diverso da “i vietcong sono cattivi, sporchi, destinati alla sconfitta e manovrati evidentemente dal demonio”? Nessuna possibilità. Quella era una bolla, le parrocchie erano bolle. Non avevamo nessuna possibilità. Abbiamo dovuto essere grandicelli per avere una riforma per cui c’era almeno uno che era di un altro partito, che aveva un altro telegiornale, e ti diceva “guarda, comunque i vietcong sporchi non sono…” e già questo ti destabilizzava. Noi siamo cresciuti in una bolla. Tu Fabio sei arrivato su quella sedia lì formato ed educato da una bolla rigidissima, violentissima. Adesso stacco e guardo la bolla di mio figlio di 7 anni: mi fa ridere come bolla e mi fa venire persino il dubbio che non sia abbastanza bolla per tirare su persone che possono poi sedersi lì a fare Che Tempo Che Fa o da questa parte a scrivere libri. Chi è passato da lì si può spaventare dal fatto che YouTube non dia a mio figlio le ultime sui suprematisti bianchi, perché a lui non gliene fotte niente, e gli dà invece la cucina, perché gli interessa. Si, gliela dà 100 volte al giorno e a noi la davano solo la sera alle 20:00 ma ti tari anche tu. Non sono stupidi, una forma di difesa ce l’avranno pure. Le due bolle sono incomparabili. Nessuno di una certa età dovrebbe mai pronunciare la parola ‘bolla’ relativa alla civiltà digitale, non può proprio dirla! Avevo un paio di amici comunisti, c’era addirittura una famiglia in cui erano ricchi e abitavano in periferia perché erano comunisti e stavano in un condominio dove avevano fatto una cooperativa. Io non riuscivo nemmeno bene ad afferrare il concetto, però lì si crepava per un attimo la bolla ma eravamo così lontani che non c’era nessuna reale possibilità di percepirli come qualcosa con cui poter avere un dialogo. Erano degli strani personaggi per cui tu a casa dicevi ‘non sono cattivi’. Mio padre diceva: comunista ma una bravissima persona. E allora capisci che adesso non devo preoccuparmi più di tanto».
L'ultimo libro
Sull’ultimo libro Abel: «È successo che nella mia vita a un certo punto ho pensato che fosse arrivato il tempo per dedicarmi a tutta la parte di me che avevo messo a tacere per fare quello che volevo fare e cioè arrivare in cima al mondo scrivendo libri e facendo televisione. Sono cresciuto con quell’idea lì e diverse volte ho detto ‘stai fermo lì un attimo, ma arriverà il tuo momento’. È arrivato il suo momento. È coinciso anche con la mia decisione di mettermi nella situazione di non aver bisogno di scrivere romanzi per far vivere i miei figli, per far vivere me bene. Ho fatto altri mestieri, ho scelto altri mestieri, mi sono messo al sicuro, non c’era più nessuna necessità. Se non scrivevo più una riga nessuno moriva e non ho scritto più nulla per un certo periodo. Poi ho iniziato Abel, non pensando di pubblicarlo, perché scrivere è un rito pazzesco e mi mancava. È una cosa delle mani, del corpo, una musica, un ritmo, è quello che hai per dialogare con l’alto. L’ho detto una volta in modo bruciante in pubblico quando mi hanno chiesto cosa fosse per me scrivere: una preghiera. Fa ridere, mi rendo conto, ma potessi ricostruirla tutta la spiegherei. Però sì, è una forma di preghiera. Alla fine, sono arrivato alla conclusione che scrivere libri per te stesso è come quelli che giocano con la palla contro il muro: c’è un tratto di tristezza che non puoi fare niente per togliere. Stavo bene ma avevo questo tratto di tristezza e tutte le volte che i miei figli o Gloria, mia moglie che è una cosa bellissima della mia vita di cui vado molto fiero, mi diceva ‘fallo, fallo!’ e allora eccolo qua. Adesso sono legato perché in questo libro c’è l’uomo che io non sono mai riuscito ad essere per molti anni - perché mi fregava troppo di tutto il resto - e che sono riuscito finalmente ad essere. Questo libro è dedicato a lui. Tutti i nostri libri sono dedicati a noi stessi, tutti i libri degli scrittori contengono gli scrittori, non illudetevi, non ci sono che libri autobiografici. È fantastico che i libri sono talmente autobiografici che talvolta scrivi cose che non ti sono ancora successe e che ti succederanno».
Narrazione e realtà
Sul rapporto tra narrazione e realtà: «La narrazione è una parte della realtà. La realtà è fatta di fatti e narrazione. Un fatto senza una narrazione non esiste, una narrazione senza un fatto è arte. La narrazione non è qualcosa che applichi: hai una bella azienda di vini e dici ‘abbiamo bisogno di una narrazione’, hai un bel partito ma non sei capace a narrarlo, hai una bella trasmissione, fatta proprio bene ma non riusciamo a raccontare quello che facciamo. Non è stato fatto niente, la narrazione non è una cosa esterna alla realtà che poi tu aggiungi. Alla Holden abbiamo questa bellissima definizione per capire cos’è la narrazione, cos’è lo storytelling: prendi la realtà, sfila via i fatti e quello che resta è narrazione. È bello perché mette la narrazione dentro la realtà ed è un calcolo che puoi fare subito. Conte: lo prendi, tira fuori i fatti e il resto è narrazione. Non vuol dire che il resto è delinquenza o che, ci sono delle cose che ci sono piaciute tantissimo che erano 80% narrazione, 20% fatti. La realtà comprende entrambi».
La politica
Sulla narrazione del politico: «In questo mestiere è vero che una soluzione a un problema che non puoi narrare, e che la gente non può capire, non risolverà nulla del Paese. Una soluzione meno precisa, che non abbiamo nemmeno tanto i soldi per fare, ma che la gente capisce… tac! La gente cambierà, ti aiuterà, starà dalla tua parte e risolverà più cose. È vero».
L'infelicità
Sull’infelicità: «C’è questa cosa che non avevo mai capito nella vita e che ho scoperto molto tardi ed è che ti giochi una buona quantità delle tue possibilità di stare sul pianeta Terra con felicità sulla capacità che hai di lasciar andare le cose. Dalle più semplici: hai perso gli occhiali? Lasciali andare. Non ci vedi un cazzo? Lascia andare. Hai perso un amico? Lascialo andare. Hai vissuto un momento di felicità bellissimo con un amico? Il pensiero è sempre rivediamoci e invece, lascialo andare».