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L'anima scossa di Eugenio Scalfari

Scuote l'anima mia Eros

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 Per una volta almeno mi son fatto tentare dal titolo (Scuote l'anima mia Eros, Eugenio Scalfari, Ed. Einaudi 2011) che è poi la citazione di un celebre verso di Saffo.

Ho sempre diffidato della prosa di Eugenio Scalfari che ho trovato pedante, polemica e, a volte, ostinatamente ripetitiva. Pensavo che con l'età e con l'esperienza fosse cambiata.

Ho letto per ciò con curiosa avidità questa sua ultima fatica che si preannunciava come una summa vitae, un testamento ultimo nel quale un giornalista (di sicuro valore ma non più di tanto) annotava pensieri, ricordi e aneddoti come avrebbe fatto in passato un ricercato intellettuale o un filosofo che sente l'approssimarsi della fine.

Invero il libro contiene qualcosa di tutto questo.

In una prefazione d'indubbio effetto si dice di lui: "Oggi sente (Eugenio Scalfari, ndr.) di aver raggiunto quello spazio immobile, quel tempo sospeso che gli permette di accogliere dentro di sé le cose del mondo invece di invaderle e possederle".

In questa sua opera Eugenio Scalfari affastella come nell'archivio della memoria citazioni, sensazioni, immagini, estrapolate dal vissuto quotidiano con l'asettica freddezza di un analista quale, in realtà, è stato. Annota riflessioni che confonde con massime di autori del passato per una vecchia tentazione di inghirlandare la sua prosa abitualmente pungente e scarna e renderla elegante e ricercata.

Viene fuori un libretto senz'anima che non riesce neppure a emozionare il lettore meno scaltrito e volenteroso, nel quale l'"io" istrionico del soggetto emerge a ogni frase, a ogni parola, anche nelle riflessioni sulla poesia per le quali mi sarei aspettato uno scatto sincero, autentico. Uno scatto che per un attimo avrebbe saputo denudare e offrire senza il velo di un'antica ipocrisia, dovuta al suo proverbiale e rigido self-control, la sua anima confessata a morsi. Come negli splendidi versi della poetessa dai riccioli viola da lui presi a pretesto o come nell'impetuoso e sanguigno tumulto delle parole, tipico del lirismo andaluso di Federico Garcia Lorca, poeta con il quale l'autore chiude il suo noioso monologo.

E invece no.

Proprio loro, questi due poeti omosessuali, Saffo e Federico, vissuti in epoche molto diverse e lontane, denunciano impietosamente e in maniera esplicita e definitiva il suo fallimento esistenziale, il tentativo, cioè, compiuto da Eugenio Scalfari di coniugare il senso misterioso e quotidiano del vivere con la vera natura anticonformista e indomita della poesia.

Questi autentici titani dello spirito contrappongono, perciò, alla freddezza delle sue parole il fuoco dello spasimo di un amore, imprevedibile e inquieto, irrazionale e per questo libero, che nessun bisturi e nessuna legge umana o divina potranno anatomizzare mai. Neppure la penna di un intruso fosse anche un famoso e venerando giornalista.         


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