Ragusa - “Yovo yovo!”
Il villaggio, di là dal fiume, non è segnalato sulle mappe. Eppure è popolato da bambini e da adulti la cui età media non supera i cinquanta anni.
La missione di Aviat, l’Associazione Volontari Italiani Amici del Togo, è composta da otto persone, tre medici, tre infermieri, due mediatori culturali.
“Yovo yovo” gridano i bambini appena scorgono la piroga in legno con gli ospiti. Nella loro lingua africana significa “uomo bianco”. Significa in realtà tante altre cose: cibo, così raro e prezioso, medicine, cure sanitarie.
Siamo in Togo, nell’Africa occidentale, paese di 8 milioni di anime, anime in attesa.
Fra i volontari partiti in novembre c’è Melania Diquattro, infermiera, 23 anni, ragusana.
All’urlo di “Yovo yovo” scende dalla barca primitiva sapendo che anche oggi la attendono duecento visite mediche, in gran parte in favore di bambini, diversi dei quali muoiono di malaria, o in attesa di una trasfusione che qui costa 10 mila Sefa, 7 euro e cinquanta centesimi, troppi per qualsiasi mamma.
“Si muore di parto, i togolesi accettano la morte come la vita” -racconta Melania, laurea triennale in Scienze Infermieristiche conseguita a Padova nel novembre 2022 e poi, il 17 novembre scorso, il primo viaggio in Africa, per quindici giorni.
“Era un mio sogno da bambina -racconta Melania- l’ho finalmente coronato. La scorsa estate ho contattato Vanessa Bove, una mia collega più grande di me che ha scritto tanti articoli sulla sua esperienza umanitaria e di missione sanitaria in Africa. Grazie a Vanessa sono entrata in contatto con il dottore Antonio Carusone, medico con cui poi sarei partita alla volta del Togo, e con Gian Franco Mirri, presidente dell’associazione Aviat.
Loro hanno prima indagato le mie motivazioni profonde cercando di capire se avrei superato l’esperienza, così forte, così intensa. Poi hanno accolto la mia richiesta di partecipare alla missione umanitaria e sanitaria”.
Cosa facevi in Togo?
“Abbiamo percorso il paese da nord a sud, partendo dalla capitale Lomè, a bordo di un furgoncino, recandoci nei villaggi dove effettuavamo circa duecento visite mediche al giorno, portando generi di prima necessità, medicine, finanziando la costruzione di pozzi. In molti villaggi manca l’acqua. È superfluo dire che in Togo c’è tanta povertà, la sanità è a pagamento, e si muore per banali problemi di salute, come una polmonite batterica.
Le nostre giornate erano fatte da visite ininterrotte dalle 8 alle 16, anche in orfanotrofi dove accade di trovare bambini che non hanno un nome e non sanno la loro età. In alcuni villaggi i bambini mangiano tre volte a settimana, noi stiamo cercando di assicurare un numero maggiore di pasti, per questo raccogliamo fondi in Italia.
Nei villaggi il nostro primo interlocutore è il capo villaggio che spesso parla il francese oltre che il dialetto africano. Poi parliamo con quello che loro chiamano “infermiere”, una sorta di praticone che si occupa dei problemi di salute di tutti, e quindi passiamo alle visite”.
Di cosa vivono? Quale è la loro economia?
“Coltivano noccioline, ananas, le donne lavorano, gli uomini adulti molto meno. Lavorano i bambini dai cinque anni in su. Se una donna ha un figlio malato viene abbandonata dall’uomo. Per metà sono cristiani, per metà musulmani”.
Che immagini ti porti a Ragusa di questa esperienza?
“Quella dei bambini che appena noi siamo scesi dalla piroga prendono le nostre valigie e le mettono in testa per aiutarci a portare i bagagli con gli aiuti per loro. Quella dei bambini dell’orfanotrofio che hanno un amore innato per chiunque vedano per la prima volta. La gentilezza di chi è in condizione di attesa, di bisogno, di necessità”.
Ti manca?
“Mi manca”.
Sai come si chiama?
“Sì, dicono si chiami Mal d’Africa”.