Roma - È morto il giornalista Rai Franco Di Mare. Lo ha annunciato la famiglia in una nota. «Abbracciato dall'amore della moglie, della figlia, delle sorelle e del fratello e dall'affetto degli amici più cari», si legge, oggi si è spento Franco Di Mare».
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Inviato per anni nelle zone più «calde» del pianeta, Di Mare aveva 68 anni ed era malato di mesotelioma. Di Mare aveva dato l'annuncio della sua malattia lo scorso 28 aprile, con una intervista al Corriere e, in diretta, a Che tempo che fa, con cui parlava anche del suo libro, uscito da pochi giorni («Le parole per dirlo», Sem-Feltrinelli: «Il mio testamento», l'aveva definito).
«Ho un cancro», aveva detto. «Oggi ci si cura e spesso si guarisce. Da questo no. Non se ne va, al massimo lo puoi rallentare, ma resta lì ed è uno dei più cattivi». Di Mare individuava la causa del mesotelioma che lo aveva colpito nell'essere «stato a lungo nei Balcani, tra proiettili all’uranio impoverito, iper-veloci, iper-distruttivi, capaci di buttare giù un edificio. Ogni esplosione liberava nell’aria infinite particelle di amianto. Ne bastava una. Seimila volte più leggera di un capello. Magari l’ho incontrata proprio a Sarajevo, nel luglio del 1992, la mia prima missione. O all’ultima, nel 2000, chissà. Non potevo saperlo, ma avevo respirato la morte. Il periodo di incubazione può durare anche 30 anni. Eccoci». «La malattia», continuava a spiegare, «era contenuta nella pleura, a parte due puntini in cui era perforata. E da lì, maledizione, il tumore è uscito. La decorticazione mi ha regalato due anni di vita. Poi però, sei mesi fa, c’è stata una recidiva. Si è presentata allo stesso modo. Una fitta acutissima. Stavolta a sinistra. Respiro con un terzo della capacità polmonare».
Un motivo di grande amarezza, per Di Mare, era rappresentato dal trattamento ricevuto dalla Rai: «Quando mi sono ammalato ho chiesto di avere lo stato di servizio, con l’elenco delle missioni, per supportare la diagnosi. Ho mandato almeno 10 mail, dall’ad al capo del personale. Nessuna risposta. Con alcuni prendevo il caffè ogni mattina. Ero un dirigente come loro, direttore ad interim di Raitre. Gli ho scritto messaggi sul cellulare chiamandoli per nome: “Ho una malattia terminale”. Mi hanno ignorato. Ripugnante, dovrebbero vergognarsi. Peraltro il palazzo di viale Mazzini è pieno d’amianto. Sottovoce, ti sconsigliano di appendere quadri al muro».
Nonostante tutto, però, diceva di fare «una vita bellissima. Sto con le persone che amo. Le mie care sorelle. Sono protetto e accudito, mi sento un piccolo sultano. Ci fissiamo sempre col primo amore - il mio, al liceo, fu una ballerina del San Carlo - ma il più importante è l’ultimo, che ti accompagna nei passi finali. Per me è Giulia. Stiamo insieme da otto anni. Tra noi ce ne sono più di 30 di differenza, prima si notava meno». E ancora, gli amici: «Ci vogliamo bene. Vengono a cena. L’altra sera ho cucinato linguine alla salsa di pane con calamaretti spillo. Fame ne ho tanta, con tutto il cortisone che prendo. Gli oncologi mi hanno concesso un calice di vino rosso a sera». «Il 28 luglio compirò 69 anni», concludeva ancora Di Mare, «ma non so se ci arrivo. Forse sì. Sono sereno, non ho paura. Mi spaventa l’idea della sofferenza, però sono andato a una dozzina di funerali di colleghi più giovani di me. E sono vivo per miracolo. Durante una sparatoria tra bande in Albania, un proiettile mi è passato dietro al collo. Non sono morto perché mi sono chinato a prendere una batteria nella borsa. Mi ritengo un uomo fortunato».