Roma - Sergio Alfieri, il primario di chirurgia oncologica addominale del policlinico Gemelli, coordinatore dei medici del Santo Padre durante il suo ricovero e suo chirurgo personale, parla del Pontefice al presente. E per la prima volta rivela dettagli e progetti che hanno segnato un rapporto «di stima e affetto» cresciuto negli anni. Da quando, era il 2021, si occupò della prima operazione all’addome.
L'intervista al Corriere della Sera: «Lunedì alle 5,30 circa mi ha chiamato Strappetti: “Il Santo Padre sta molto male dobbiamo tornare al Gemelli”. Ho preallertato tutti e venti minuti dopo ero lì a Santa Marta, mi sembrava tuttavia difficile pensare che fosse necessario un ricovero. Sono entrato nella sua stanza e lui aveva gli occhi aperti. Ho constatato che non aveva problemi respiratori e allora ho provato a chiamarlo però non mi ha risposto. Non rispondeva agli stimoli, nemmeno quelli dolorosi. In quel momento ho capito che non c’era più nulla da fare. Era in coma».
Inutile anche trasferirlo in ospedale?
«Rischiavamo di farlo morire nel trasporto, ho spiegato che il ricovero sarebbe stato inutile. Strappetti sapeva che il Papa voleva morire a casa, quando eravamo al Gemelli lo diceva sempre. È spirato poco dopo. Io sono rimasto lì con Massimiliano, Andrea, gli altri infermieri e i segretari; sono quindi arrivati tutti e il cardinale Parolin ci ha chiesto di pregare e abbiamo recitato il rosario con lui. Mi sono sentito un privilegiato e ora posso dire che lo sono stato. Quella mattina gli ho dato una carezza come ultimo saluto».
Durante l’ultimo ricovero ha mai pensato che il Pontefice non ce l’avrebbe fatta? «Sì, una notte erano state avviate le procedure che poi sono state eseguite lunedì. Abbiamo temuto il peggio e invece lui ha sorpreso tutti. Sapevamo che voleva tornare a casa per fare il Papa fino all’ultimo istante. E non ci ha delusi».
Che cosa aveva fatto nei giorni precedenti? «Mi ha chiesto di organizzare un incontro con tutte le persone che lo avevano curato al Gemelli. Gli ho detto che erano 70 persone forse era meglio farlo dopo Pasqua, alla fine della convalescenza. La sua risposta è stata netta: “Li incontro mercoledì”. Oggi ho la sensazione netta che lui sentisse di dover fare una serie di cose prima di morire».