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Zeman si ritira nella sua Sicilia: «Non mi resta che il mare»

L’allenatore chiude la carriera dove l'ha cominciata: “L’Isola vive i propri drammi con dignità”

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 Mazara del Vallo, Tp - «La prima cosa che ho amato dell'Italia? Il mare. Per questo sto tra Palermo e Mazzara. Ormai fuori dal calcio che conta, non mi resta che il mare anche se qualche partita la sbircio, ogni tanto». A 75 anni Zdenek Zeman ci scherza sopra, ma un fondo di verità c'è: il grande calcio lo ha emarginato, non gli ha mai perdonato le sue critiche schiette contro il sistema e i big, dalla Juve a Mourinho, portate avanti sempre a bassa voce. Ora vuole godersi solo la sua amata Isola, dov'è tornato dopo oltre 40 anni passati in giro per squadre e campionati italiani.

In Sicilia conobbe Chiara Perricone, sua moglie, con cui ha due figli. E in Sicilia cominciò la sua avventura nel 1969 in squadre dilettantistiche: Cinisi, Bacigalupo, Carini, Misilmeri, Esakalsa; poi le giovanili del Palermo e il Licata, detta allora la "nazionale siciliana" perché composta solo da isolani. Un breve ritorno in Sicilia nell'88 a Messina e quindi il Foggia "dei miracoli", noto come "Zemanlandia": un calcio champagne che riuscì a fare esordire per la prima volta in Nazionale giocatori che militavano in serie B come Baiano, Rambaudi e Beppe Signori. Quindi la Serie A: Lazio, Roma, Napoli. Ne ha lanciati tanti di campioni Zeman: Schillaci, Nedved, Nesta, Immobile, Insigne.

Ha allenato miti come Paul Gascoigne ed è stato lui a mettere al braccio di Francesco Totti la fascia di capitano giallorosso. Avvolto come al solito dai fumi delle sigarette, il boemo parla al rallentatore, lo sguardo di chi ne ha viste troppe. «Non c'è un perché ami così tanto la Sicilia, oppure ce ne sono tanti. Arrivai qui ragazzino da Praga e l'isola mi piacque subito, forse perché vive la storia e i propri drammi con dignità. Nelle ultime settimane Palermo ha ricordato Falcone e Borsellino, vittime del lato peggiore di questa terra. Ma qui dicono che i signori della mafia, negli ultimi tempi, se ne siano andati a Milano. Boh... ma parliamo di calcio, non è meglio?».

Ma anche il pallone è pieno di amarezze: «Se deve essere un business e basta, hanno ragione “loro”: io lo considero ancora uno sport». Zeman ha fatto scuola, regalandoci un gioco spumeggiante agli antipodi del catenaccio nostrano, ma ha vinto poco o nulla in carriera, allenando quasi sempre al Sud: «Non mi è mai importato vincere a tutti i costi, quella è una regola arida oggi in voga, purtroppo anche in squadre che vorrebbero vincere in Europa. Ai miei giocatori, sin dai tempi del Licata, dicevo: segnate un gol in più dell'avversario. Giocate con gioia. La regola era cercare il risultato attraverso la bellezza».


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