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Giorgio Agamben ricorda Guccione: L'Ultimo Piero

Pubblichiamo il testo di Agamben composto per il convegno tenuto a Scicli in occasione del primo anniversario della morte di Piero Guccione nell’ottobre del 2019.

https://www.ragusanews.com/immagini_articoli/04-02-2025/giorgio-agamben-ricorda-guccione-l-ultimo-piero-500.jpg Giorgio Agamben ricorda Guccione: L'Ultimo Piero


Scicli - Se ho scelto, in questo primo anniversario della sua morte, di parlarvi dell’ultimo Piero, ciò non è soltanto perché l’ho frequentato più intensamente da quando nel 2011 con Monica siamo venuti ogni estate a Scicli. È forse perché l’opera tarda dei pittori, come anche quella dei poeti, mi interessa in modo particolare, perché sembra avvicinarsi di più al loro segreto. Voi sapete come negli ultimi anni, che vedono nascere capolavori come l’annunciazione di S. Salvador a Venezia o Lo scorticamento di Marsia a Praga, lo stile di Tiziano sembra trasformarsi radicalmente, la stesura del colore si inasprisce e si fa quasi magmatica, il gesto del pennello diventa violento, secondo un modulo che doveva affascinare i pittori impressionisti. Così nella poesia dell’ultimo Caproni, la meravigliosa tessitura prosodica si rompe e il verso si spezza riducendosi spesso, secondo un’acuta espressione di Zanzotto, «a righe mozze». Nello stesso modo, negli inni tardi di Hölderlin, il verso va letteralmente in pezzi e di esso non sopravvive che una parola, a volte soltanto una proposizione avversativa: aber, ma.

Nell’opera tarda di Piero avviene in un certo senso il contrario. Nei suoi ultimi quadri egli sembra voler unire e saldare, attenuare e ricucire ogni frattura. Quasi una scrittura continua, senza cesure né punteggiatura. Una volta Piero ha detto che con la sua pittura egli ha cercato di far incontrare il mare e il cielo. Un incontro forse impossibile, ma che negli ultimi anni egli ha provato tenacemente a realizzare. La stesura dei quadri si estenua ora a tal punto che diresti che non è più una mano a dipingere, ma soltanto uno sguardo, che Piero dipinga ormai solo con la luce, quella luce che un geniale filosofo del trecento, Ronerto Grossatesta, definiva forma corporeitatis, la forma stessa del corpo. Ma qui – cosa che il filosofo di Oxford non avrebbe forse potuto immaginare – i corpi, non ci sono più, c’è solo la luce, in cui tutto s’indetermina. È in questo senso che si può parlare per l’ultimo Piero di un’arte delle soglie, a condizione di precisare che la soglia non è un limes o un confine che separa, ma piuttosto una zona di indistinzione fra due opposti, siano questi il mare e il cielo, la linea e il colore, l’ombra e la luce.

Piero in un testo del 1998 ha citato una volta Ravel, che diceva che tutto il piacere della sua esistenza consisteva nell’incalzare la perfezione sempre più da vicino. Credo che questa frase, che egli sembrava voler allora riferire a se stesso, non sia più vera per l’ultimo Piero, almeno non negli stessi termini. Piero ora non incalza più, non insegue la perfezione, piuttosto l’attende, pazientemente o febbrilmente, per arrendersi ad essa senza condizioni. Per questo nell’ultima visita al suo studio mi disse, delle tele che stava dipingendo e che non riusciva a finire, che aspettava il miracolo, il miracolo che mettesse fine a quella pittura. In questo senso, nessuno dei quadri che stava dipingendo negli ultimi anni si può dire finito, ma nemmeno non-finito nel senso della tecnica cara a Michelangelo, che lascia intenzionalmente non finite i prigioni. Piuttosto, è come se qui compiutezza e incompiutezza, persistenza e abbandono non avessero più senso. 

C’è una terzina del Paradiso (30, 31-33) in cui Dante ha espresso perfettamente quello che sto qui cercando di dire:

Ma or convien che mio seguir desista più dietro a sua bellezza, poetando, come a l’ultimo suo ciascun artista. Il punto estremo che l’artista raggiunge inseguendo la bellezza non è un insistere e un afferrare, ma un desistere, un lasciare la presa.

Così nelle ultime tele di Piero, in questa resa che vince, in questa desistenza che segue «più dietro a sua bellezza», la pittura raggiunge una soglia in cui lontananza e vicinanza, finito e non finito, farsi e disfarsi sembrano coincidere. Forse per questo il gesto che cerca la perfezione sembra ora come esausto e spossato. Ma non per questo meno ostinato e tenace. Si può parlare di uno stile o di una maniera della spossatezza, come Deleuze ha fatto dell’esausto una postura del pensiero. 

Spossato significa senza più “possa”, ma, a differenza degli altri termini per esprimere la stanchezza, questo evoca, come tutti gli aggettivi formati col prefisso privativo “s”, la “possa”, la potenza che poi si spegne e affievolisce. Viene qui in mente quel che scrive nella seconda lettera ai Corinzi l’apostolo Paolo, che, mentre chiede al signore di liberarlo dalla spina confitta nella sua carne, si sente rispondere: «la mia potenza si compie nella debolezza» (2 Cor. 12,9). Una spossatezza conficcata nella carne come una spina, una spossatezza che pensa caparbiamente la potenza, che non cessa di chiedersi: «che cosa significa poter dipingere?» e «posso io davvero dipingere?». In questo senso si può dire che nelle ultime tele di Piero si compie quello stesso evento che ci colpisce con tanta forza nelle Meninas di Velasquez: il pittore non dipinge solo ciò che vede, ma anche la stessa potenza, possibilità o impossibilità della pittura, la sua stessa arte.

Che cos’è la luce, del resto, se non la possibilità della pittura? C’è in questo senso nell’ultimo Piero uno stile della spossatezza, una maniera esausta, ma non per questo meno implacabile. In un testo che avevo scritto per una mostra di Piero, mi ero soffermato sull’importanza dell’aggettivo “tenue” nel poema di Lucrezio, che non significa “fioco”, ma, conformemente alla sua etimologia da tendo, “teso”, teso fino a diventare sottile, quasi impercettibile. Così, in Lucrezio, tenui sono innanzitutto gli Dei (tenuis natura deorum), ma anche i simulacri, membrana lievissima, che non possiamo vedere, ma che tende incessantemente a staccarsi, quasi a esalare dalla superficie dei corpi per penetrare i nostri sensi. Così tenue, così impercettibile è l’incontro della terra e del mare che Piero voleva dipingere. Ed è questo incontro che Piero ci ha lasciato in dono come un ultimo, estenuato, impareggiabile legato. Tanto più perfetto perché interminabile, tanto più eccelso perché sulla tela egli è riuscito a rappresentare lo stesso medio diafano e invisibile della pittura. Ogni volta che mi trovo sulla marina di Sampieri dove Piero soleva passeggiare quasi ogni mattina, io non posso che pensare a questo esausto, inesauribile dono di luce.

Scicli, 5 ottobre 2019

Nella foto di Giuseppe Savà, Piero Guccione, Giorgio Agamben, Paolo Nifosì. Il teso originale è qui


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