“É al greco che torniamo quando siamo stanchi della vaghezza, della confusione; e della nostra epoca”
Non vorrei svilire la solennità romantica elargitaci dalla grande Virginia Woolf, ma dovrei cominciare col precisare che la ragione precipua per cui è stata scelta tra migliaia di citazioni possibili è anche più prosaica. Mi toglieva dall’impiccio di introdurre con una certa magnificenza e notevole profondità, lo scenario di riferimento che, come avrete capito, è quello degli studi classici.
Ho tentato, per l’occasione, anche un’incespicata raccolta di aneddoti che potessero aiutare a delineare e definire il profilo della nostra scuola, più di quanto non riesca a fare la scuola stessa. Anzi, penso proprio che gli aneddoti gli diano voce e timbro, ne rappresentino l’anima, la trasformino da entità inanimata a organismo vivente, convertendo i burattini in bambini veri.
In altre parole, l’aneddotica scolastica altro non è che la scuola spiegata a parole sue.
É proprio in virtù di questo che quando leggiamo la scuola degli altri vediamo sempre la nostra.
A dirla tutta, ho cercato di recuperare un po’ di fatti e fatterelli tra le generazioni che mi hanno preceduta e non tra quelle che mi hanno succeduta. Perché dopo di noi, si sa, è sempre il nulla eterno.
Ma, spoiler: ho desistito; con buona pace di tutti, per non incappare in una serie di spiacevoli inconvenienti che potrete capire. E quindi beccatevi una ricostruzione non proprio neorealista, non proprio avvincente, non proprio quella che avrei voluto scrivere, non proprio quella che avrei voluto leggere, del nostro sempre caro, carissimo liceo classico.
È accaduto spesso, a lavoro, imbattendomi forzatamente nella triste dinamica delle assunzioni, dello screening di cv, della selezione di vite ridotte a “risorse” che, per convincermi a chiamare qualcuno a colloquio, non di rado, i colleghi più persuasivi, mi abbiano invogliato nella scelta, facendo furbescamente leva sui miei punti deboli: ”questo ha fatto il classico”. In barba a master, MBA, PhD, lauree, doppie lauree, voti di laurea, esperienze all’estero, lingue parlate, hard skills e soft skills, il liceo classico è diventato, per me, uno strumento persuasivo definitivo.
Certo, un minimo di delusione poi scoprire che “il Manzoni,” al secolo “il manzo”, ribattezzato così da chi lo ha frequentato, “il Parini”, “il Beccaria”, “il Carducci”, ”il Leopardi”, “il Cavour” e “l’Ariosto”, somigliassero sì, ma mai del tutto al mio personalissimo liceo d’eccellenza, high school del cuore, esclusivo college dell’anima e immaginaria Scuola di Francoforte del pensiero.
Così che quando, talvolta, qualcuno mi ha chiesto che scuola avessi frequentato prima, prima di tutto il resto, sono stata portata a pensare che esattamente come un accento rimanda immediatamente alla provenienza, la nostra, la mia scuola emergesse naturalmente e derivasse proprio da lì.
Con un compiacimento tutto da dissimulare, dopo un personalissimo training di derivazione tibetana, fatto di “mantieni un basso profilo”, “smonta l’enfasi e l’arroganza che la risposta potrebbe meritare”, “non farlo sentire meno fortunato”, “non avere paura di sconvolgerlo e piazza la risposta”. É solo dopo un lavoro di ridimensionamento che potevo rispondere con diaframma ancora in fibrillazione [fanfare, prego!]: “il Liceo Classico di Scicli “, detto con la stessa solennità e con quel minimo di insolenza che avrei messo nel dire “l’Accademia di Atene, bellezza!”.
Negli anni, moltissime sono state le rievocazioni, i rimescolamenti della memoria e soprattutto l’aneddotica, in famiglia, tra ex compagni di scuola, vecchi amici e amici nuovi.
A casa mia la riserva di aneddoti era triplicata.
Come per molti altri, la frequentazione del Liceo Classico, a Scicli, aveva un carattere clanico. In una famiglia, tutti i fratelli, sarebbero stati coattamente indotti a fare lo stesso liceo, tranne che inesorabili trasgressioni ne complicassero la continuità familistica.
Tutto un cerimoniale di “sei la sorella di, il fratello di, il cugino di”. E noi “fratelli o sorelle di”, nostro malgrado, abbiamo accettato assertivamente questo, oggi inammissibile (sappiatelo), svilimento identitario.
Il carattere clanico veniva, però, ulteriormente corroborato da un’attitudine che ci veniva trasmessa come una sorta di investitura iniziale, già da novizi, questa devo dire comune a tutti i classicisti. Investitura che ci avrebbe fatto indossare per sempre un nuovo filtro, come degli immaginari Ray-Ban Wayfarer, attraverso i quali a quel punto avremmo per sempre guardato le cose, gli altri, il Mondo o quel che ne resta.
Un modo nuovo e definitivo, senz’altro corporativo. Aderendo a un patto non detto di affiliazione, con un minimo di saccenteria, un pochino di sapienza, un tantino di tracotanza, e un altro cicinino di sprezzatura.
Nel nostro caso, esistevano ulteriori tipicità autoctone, di cui parlerò.
Il liceo finché l’ho vissuto io vedeva la convivenza forzata del ‘Classico con un Liceo Scientifico, (che per la verità ci aveva accolto), vissuto con una certa tolleranza, e un Istituto Commerciale, al secolo “la ragioneria “, vissuta da noi come un indistinto monolite trogloditico, a cui temo non attribuissimo neanche qualità umane, che ne so, la parola, una lingua, neanche quella.
La ragioneria occupava il secondo piano dell’istituto, aveva un altro ingresso.
Si entrava “da dietro”, per l’appunto.
A ripensarci era un vero apartheid; chiediamo scusa, oggi dopo secoli, come fanno i papi, talvolta, con qualche martire.
Loro comunicavano con noi, come clausura monacale impone, attraverso un corridoio al secondo piano, aperto sulla nostra aula magna, ma, a un certo punto, la discriminazione, se non fosse stata abbastanza chiara, sarebbe divenuta esplicitamente architettonica.
Dapprima fu un vetro separatore su cui, ogni tanto, durante le assemblee, gli affettuosamente barbari si misuravano in performance disturbanti che confermavano la nostra infima considerazione di loro, di essi anzi.
Con il senno di oggi, in realtà c’era del genio, valevano cento Marina Abramovic: versi, insulti, e i più geniali si appiccicavano al vetro come gechi sui muri durante le nostre assemblee, per sabotare, ridicolizzare visivamente ogni nostro tentativo d’ azione remotamente politico …
Così vicini, così lontani.
Tuttavia, l’intellighenzia del Reich liceale giudicò insufficiente un vetro. Serviva un muro e del filo spinato, se necessario. Noi ariani, loro qualcos’altro.
Il liceo classico, smontato del suo valore concettuale e romantico e ridotto a prosaica architettura brutalista, altro non era che un corridoio. Pure piuttosto striminzito. Mi suggestiona pensare quanto domani potesse contenere ieri quel corridoio strettissimo.
Quanta densità di intelligenza, di idiozia e di tutto quello che sta in mezzo, sia transitata da lì, coltivata e aizzata o altrimenti ignorata e svilita.
Quante prospettive sarebbero esplose da quello spazio minimo, da quell’insieme di rette e da quegli angoli angusti.
Avevamo un’altra aula minima, appena fuori da questo corridoio, che spettava a classi considerate dalla nostra cinica visione puberale, sfigatelle, svantaggiate per qualche ragione, in genere ridotte nel numero di studenti. E per di più con una concentrazione altissima di primi della classe. Insopportabile, lo capite.
Forse, però, il nostro disprezzo non era orientato al dislocamento spaziale di quell’exclave appena fuori confine, ma a quello che rappresentava, ovvero l’esiguità. Solitamente erano classi che raccoglievano quindici, sedici, diciassette ragazzi al massimo.
Il che voleva dire che in tutto il paese, un paese con il litorale più esteso dell’intera provincia, fatto di diverse frazioni, una moltitudine di contrade e centinaia di trazzere e vanedde, e quartieri e vernacoli, con una densità di popolazione di duecento abitanti per chilometro quadrato; in tutta questa circoscrizione solo diciassette ragazzi sarebbero stati gli improvvidi sventurati dati, quell’anno, agli studi classici.
Era una sorta di tradimento, di fallimento risorgimentale locale, sentivamo l’eco dei nostri Cavour e dei nostri Garibaldi: “abbiamo fatto il Liceo Classico! Ve lo abbiamo portato a casa!”.
Il nostro inconscio, ne avessimo avuto uno, avrebbe senz’altro citato Flaiano: “Non mi chiedete dove andremo a finire perché ci siamo già!”.
Forse anche per questo, noi tenevamo un atteggiamento istintivamente protettivo, compensativo, fatto principalmente di fierezza, che voleva comunicare al resto del mondo conosciuto, quello che i napoletani scrissero al cimitero dopo la vittoria dello scudetto del 1987, “Cosa vi siete persi!”.
Il Liceo Classico di Scicli (ormai denominazione di origine controllata e garantita), già Campailla, già Marconi con sezione classica, e finalmente Istituto di Istruzione Superiore Statale, a Scicli era stata una vera conquista. Prima i nostri classicisti erano gazzelle sitibonde che ogni mattina si svegliavano sapendo di dover correre più veloci dei leoni.
I leoni in questione erano quelli della [pernacchie in regia, grazie!]: Contea di Modica.
Un atavico retaggio di questa triste deportazione di talenti, di questa fuga di cervelli a km 0, rimaneva viva in una forma indigena di bullismo capovolto che riservavamo a quel punto ai modicani, normalmente costretti ad emigrare da noi per infime ragioni di basso profitto.
Oltre che tutto il corredo di organi amministrativi e segreterie regie, con il liceo scientifico condividevano tre elementi importantissimi nella geopolitica liceale e negli equilibri fra le potenze del regno: le assemblee, il bagno delle ragazze (members’club di noi fumatrici) e un’area esterna, un dehor, che nelle metropoli calviniste di oggi definiremmo, coffee break area, destinata al rifocillamento durante l’intervallo.
La nostra ricreazione, infatti, si poteva svolgere negli spazi interni ovviamente, ma era all’esterno che ci approvvigionavamo.
In ricreazione, l’area esterna, lato per lato, era definita e dominata da diverse auto parcheggiate, e poi un’automobile, su tutte, che dirigeva l’azione, una macchina parcheggiata generalmente di sguincio, come pronta a darsi alla fuga. Come a rappresentare la fugacità legata alla pausa, all’intervallo, alla sospensione.
Era lì in rappresentanza generale dell’albo dei bottegai, dei pizzicagnoli, delle putìe e di chiunque fosse risultato utile a darci il nostro pane quotidiano. Non aveva l’ardire di arrivare sgommando che sarebbe stata la degna premessa di quel posizionamento malandrino, ma la trovavamo già preposta e pronta a soddisfare le nostre fameliche richieste. Parlavamo direttamente con la bocca posteriore dell’automobile come fosse un totem, tipo bocca della verità.
Si trattava del bagagliaio del signor Gazzè che si spalancava davanti a noi con le sue caratteristiche catene alimentari fatte di carboidrati complessi, molto complessi.
Questo banchetto di pani era presentato su tappetino universale da baule, tipologia moquette, che rendeva il cofano, in Sicilia soprattutto, protagonista del Novecento, specie in ambito alimentare e commerciale (un caloroso saluto alla Nas che ci legge).
Il bagno fumatrici e soprattutto quel perimetro, quella “striscia di Gazzè”, era un anello di congiunzione fondamentale tra classico e scientifico. Consacrava unioni, legami, sodalizi, talvolta anche carbonerie tra Trivio e Quadrivio.
Ma niente, nulla, che potesse compromettere e corrodere quel senso di incorruttibilità e autodeterminazione del liceo classico.
Noi davvero non eravamo corruttibili.
Una su tutte. Scioperi, Autogestioni o occupazioni generali - tranne che per noi, in particolare - si traducevano in “adrenalina pura”, esaltazione della emancipazione, doping dell’autoaffermazione.
Ora, per un ragazzo di sedici anni scegliere di fare quattro ore di greco e di latino, piuttosto che niente, non è un fatto così ovvio. Equivale a smettere di fumare con le sigarette in tasca. O a digiunare nonostante il frigo pieno. Una prova olimpica di resistenza assoluta. È bene dirlo.
Del resto, davanti e contro di noi erano legioni di immancabili tentatori. Ci attendevano, con puntualità aritmetica a ottobre, dei masanielli amatoriali, provenienti dalla sponda scientifica, che agitavano in mano contestazioni fasulle. Facinorosi della domenica che rappresentavano le frange più estreme e irredimibili della fannulloneria militante, contestatori che sventolavano la bandiera dei termosifoni sempre guasti. A ottobre. In Sicilia. Inaccettabile!
Pasionarie del diritto allo studio, guardie giurate della Riforma Gentile che, puntuali come l’intestino, sempre a ottobre, si ricordavano di un ministero, e poi anche di un ministro, addirittura di un ministro dell’istruzione che ogni anno, a ottobre anch’esso, stava sempre per staccare la spina a questo presunto malato terminale che era, che è e sempre sarà la scuola pubblica.
Che se fossimo complottisti, penseremmo sia stata una massoneria dell’altissimo ordine del cazzeggio a ordire un guasto eterno al sistema di riscaldamento delle scuole di tutto il mondo e a promuovere la nomina reiterata di un ministro della Pubblica Istruzione che trama perennemente un attentato a sé stesso. Un suicidio assistito, praticamente.
Certo, c’era anche il Jolly di una guerra in una qualche parte di mondo, che comunque sarebbe tornata utile nel mese della contestazione. Poco importa che fossero i Balcani post Tito, il Congo o l’Iraq, già Mesopotamia. Toccava prendere e spolverare un mappamondo, un atlante, una cartina, un pizzino, rievocare oggi e sempre il ripudio della, nostra e altrui, guerra all’art. 11, addentrarsi, senza l’aiuto di Lucio Caracciolo, in una qualche dinamica geopolitica, armarsi di filantropia e umanitarismo, schiarirsi la voce e proclamare la pace nel Mondo.
Davanti a tutto questo immarcescibile e sempre uguale a sé stesso teatro della rivendicazione del sacrosanto diritto al fancazzismo, noi rispondevamo, spesso, con una rigida, claustrofila e giusnaturalista chiusura d’orgoglio, di certo un po’ cistercense, bacchettona: “amici, compagni, io disapprovo il passo…manca l'analisi e poi non c'ho l'elmetto"!
Diventavamo crumiri, milizie del senso del dovere. Sottraendoci, spesso, alla nevrosi autunnale da bivacco collettivo.
Ogni tanto, durante le occupazioni, lo spazio dell’eterotopia classica veniva anche sprangato. Come a sancire la nostra definitiva presa di distanza dalla protesta farlocca, dal calorifero guasto, dal nostro ministro. E dalla pace nel Mondo cui opponevamo una più accessibile pace interiore.
Non avremmo umiliato così facilmente un diritto giacobino come quello dello sciopero.
– Ray-Ban, per favore! -
Era solo a quel punto che, ancora stremati dall’ immolazione più sfibrante, un professore, ma non uno a caso: egli, lui! Fingendo di non aver capito o avvertito i sentori di rivolta e i ragli di contestazione là fuori, manifestava la sua incredulità, il suo intimo compiacimento, frugando sadicamente tra le nostre ragioni.
“Cosa c’è?”, “Che cosa è successo?” Come se si fosse svegliato solo in quel momento.
La trasposizione virtuale, l’esperienza immersiva dell’incredulità di San Tommaso, che con il dito affonda nella piaga sanguinante.
Ed era lì che, con un nobile esercizio di sprezzatura rinascimentale, ancora in preda a visioni e allucinazioni mistiche, minimizzavamo il brutale sacrificio con un distaccato:
“vorrebbero occupare ma non ci sono vere ragioni!”, Sostenuti da un condizionale di consolazione. Stampella su cui claudicare. Infinito in cui annegare.
Lecchini? Ruffiani? Non lo sapremo mai.
Ma parafrasando Amleto, posso dire che c’era del metodo nella nostra follia.
Anche i bidelli o collaboratori scolastici o non saprei che denominazione woke gli sia toccata oggi, beh, anche loro sentivano un’appartenenza a un clan, a un’ecumene speciale.
Al liceo classico erano già qualcosa di diverso di un bidello semplice.
Il nostro era stato ribattezzato “Pablo” e non credo di dover aggiungere altro. Non era evidentemente un bidello, ma un factotum, una sorta di ministro degli interni e degli affari esteri della cancelleria classica.
I mei fratelli raccontano di indimenticabili interventi del bidello Giuca, che non ho mai conosciuto.
Appreso il nome di mio fratello, per onorare la suddetta appartenenza umanistica, si premurò di attribuirgli immediatamente una reference letteraria, e non una ovvia come quella che potremmo immaginare, ma un’altra, sofisticatissima, di cui divenne impossibile verificarne il fondamento. Disse ”Edmondo come il francese Edmond Bardòn”… Adesso, non sappiamo se fosse Edmund Breon o se fosse un Edmond immaginario come Edmond Dantes.
È certo che anche per noi, da allora, esiste Edmond Bardòn.
Ma la suaboutadepiù citata in famiglia riguardava una mansione che nella nostra fantasia lo vedeva fiero ambasciatore di buste paga. Il nostro immaginario, in questo caso, non riusciva a sporgersi oltre il venale, e quindi per noi consegnava “lo stipendio”. Inverosimile, capiamo oggi. Ma avevamo costruito questa sequenza e perciò, dopo vent’ anni, che non venga la solita verità a guastare i nostri cerchi.
Dunque, per noi il signor Giuca procedeva in questa misteriosa, sinistra mansione, con il portamento sincopato di un cadetto in cambio di guardia, approdando alla consegna di una busta con gravità notarile. Busta che per noi si faceva foriera di pecunia. E allorché, con spirito, un professore lo molestasse nell’ impenetrabile discrezione, chiedendo se per caso, quel mese, ci fossero variazioni, (che il nostro fanta-sindacalese traduceva in “un aumento”), lui sistemando l’occhiale dotto a metà tra un Pasolini e un ragionier Filini, tuonava con un verista, durissimo e impietoso: “Seeeempri chiddi, professore”.
Confermando i nostri, a questo punto, fondatissimi sospetti.
La nostra scuola di Atenenon aveva portici e chiostri, ma aveva sicuramente colonne in senso figurato. E fu una fortuita e fortunata combinazione di figure, prima a formare, poi a rappresentare l’Assemblea costituente, gli insostituibili padri e madri costituenti di una genetica liceale singolare e irriproducibile nella mia idealizzazione.
Bisognerebbe spendere almeno una parola per ciascuno dei costituenti e anche per le presenze collaterali, di passaggio, casuali e transitorie.
Per esigenze di copione, mi concentrerò su quattro figure emblematiche, rappresentative, scelte a sorteggio dalla mia memoria affettiva, affinché possano aiutare a dare colore narrativo alla nostra ricostruzione. E, soprattutto, per onorarne i meriti.
Il Professore Giavatto
Il professore Giavatto è stato uno di quei prof. che gli sceneggiatori americani ci potrebbero rubare per scrivere fortunate serie Netflix, la versione nobile del professor Keating, senza quelle insostenibili divaricazioni retoriche e quelle enfasi patetiche.
Non ci ha mai suggerito di strappare una pagina di Pritchard, per intenderci.
Superfluo e ridondante sarebbe stato ogni gesto di proclamata originalità.
Mai un registro, mai un appello, mai usata la lavagna, mai un rimprovero, neanche un, che ne so, “silenzio!”; tutto il glossario scolastico normalmente attribuibile all’uno o all’altro prof., quella galassia lessicale astratta che identifica metonimicamente il mondo scolastico, in lui era contratta in un solo imperativo esortativo al singolare: “Introduci”.
Aderiva con evidente disagio al dictat didattico, ai tempi della scuola scanditi in quadrimestri e in programmi ministeriali sempre da finire.
Tacitamente dissacrante rispetto alla totalità dei tic dell’ecosistema di riferimento.
Tendeva a esorcizzare l’aspetto caricaturale della scuola, ridicolizzandone alcuni tratti con effetti macchiettistici, con sabotaggi spontanei e occulti. A ripensarci, la sua è stata una sotterranea, silente, e umoristica - ci arrivo - riforma scolastica.
Un approccio riformistico tutto suo, senza proclamazioni e compiacimenti, senza bandiere e megafoni, messo in atto instillando silenziosi attriti e rotture eversive rispetto alla noiosa, noiosissima ricorsività delle dinamiche di scuola.
Il tutto senza ricorrere mai a quegli espedienti su cui talvolta scivolano professori, reduci e mutilati dal ‘68, aperti al “dialogo”, “disponibili al confronto” e alla “libera circolazione di idee”, che vogliono stabilire una vicinanza psicologica “portando avanti il discorso” con l’avversario, ovvero la cattivissima prima giovinezza dei ragazzi e passare alla storia per essere “diversi”. Un po’ come quei genitori che si proclamano migliori amici dei figli. Che fuggendo da una caricatura scivolano dritti dritti in un’altra ben peggiore, la stessa che di solito chiosa con “parliamone” “riflettiamo” o “meditate”.
Mi riferisco al fenotipo che fa ricorso a due, tre classici di riferimento; che consiglia libri importanti per incanalare la ribellione, che sfodera fossili di velleità rivoluzionarie, che con un’attitude da Don Chisciotte ammicca al beat e al cantautorato americano o al folk anni ‘70, insinuando analogie inquietanti fra Dante e il punk inglese, fra Ariosto e la psichedelia britannica, e che a un certo punto esordisce pure dicendo “ l’immaginazione al potere!” , sfoderando tutto quell’ apparato teorico piacione e demagogico che fa presa sugli adolescenti, che vi rimangono appiccicati come moscerini sulla luce. Sottotitolo: “ti piace vincere facile!”.
Ecco, non era il caso del nostro professore. A lui, forse, non interessava neanche vincere, era un fuori classe, un livello pro.
Con lui la scuola usciva silenziosamente dalle consuetudini più calcificate, da quelle modalità ovvie e reiterate, che la rendono spesso materia inerte e risibile.
Se sapere rende liberi, noi potevamo essere anche liberi di sapere. E di non sapere, ça va sans dire.
I compiti in classe, per esempio, erano sorvegliati unicamente dal nostro arbitrio.
Un totale sabotaggio del controllo e della sorveglianza. Del divieto e della punizione.
Si delineava, nelle sue ore, una sorta di realtà collettiva basata sul consenso per dirla con Bianciardi. Un po’quella roba lì.
I compiti in classe erano ore in cui ci lasciava totalmente da soli. Una specie di eremo autonomo. Un’India dove ritrovare o perdere sé stessi. Il che sarebbe stata una cuccagna, un eldorado, una “libidine coi fiocchi” per qualunque studente: l’idea, non so, di poter copiare per ore.
Faceva delle sporadiche apparizioni, da teatro dell’assurdo, tra Beckett e Ionesco, non era detto apparisse dalla porta, poteva apparire dalla finestra. Le incursioni non erano di verifica, intendiamoci. Ci sapeva ancora prima di conoscerci; erano, credo, per una sorta di sollazzo personale.
Quando si rimaterializzava, infatti, ci coglieva come topo sulla colla, partiva un coreografico e orchestrale fragore di libri richiusi fulmineamente, rimanevamo congelati in una posizione sconveniente che ci coglieva viziosi copiatori di manuale. Con il muso ancora sporco di zucchero, venivamo interrotti bruscamente nella sublime arte della copiatura, retaggio e contagio benedettino, artigianalmente trasmessoci since 480 d.c..
Un’altra sberla al sistema veniva assestata ogniqualvolta interrogasse qualcuno di cui era certo prevederne la preparazione; nel momento in cui il poverino cominciava la sua omelia, lui si sottraeva al supplizio, uscendo fuori dall’aula, salvo rientrare per una breve incursione, giusto il tempo di ribadire “continua pure” (senza di me, sottinteso).
Come direbbe la GenZ oggi: “genio totale”.
Durante le interrogazioni, spesso, chiamava un “tu” generico, indicato solo dal dito ma non accompagnato dallo sguardo sul malcapitato. Ovviamente solo il più timoroso, il pauroso impreparato di turno, avrebbe tapinamente risposto “chi, io?”. Auto flagellandosi in un sacrificio annunciato. Il professore, senza neanche sapere a chi avesse inflitto la ghigliottina, replicava perfidamente: “Proprio tu”.
Una trasposizione esistenziale dell’ultima cena leonardesca con un Giuda che manifesta l’accusatio, e Gesù colto in uno sguardo misericordioso oltre l’orizzonte.
Un feticcio letterario su tutti, neanche a dirlo. Leopardi. Leopardi che scolasticamente avrebbe preso una settimana, due al massimo, all’interno di un palinsesto scolastico. Da noi, diventava una preparazione a lunga stagionatura, oscillava dai tre ai ventiquattro mesi. Un Phd, un dottorato praticamente.
Ancora oggi davanti a trasposizioni televisive o cinematografiche su Leopardi, gli scambi tra ex compagni di classe hanno un tono religiosamente protettivo, sacrale, ci portiamo una mano davanti agli occhi, abbandonandoci a uno “speriamo non l’abbia visto”. Come se in fondo una cattiva esegesi avesse offeso non tanto Leopardi, ma l’unico per noi autorizzato a parlarne.
Nessun manifesto programmatico concepito per renderci i radical, gli europeisti, gli eclettici, i rivoluzionari, i chitarristi o i progressisti di oggi. Ha piuttosto, forse, provato a sottrarci, a liberarci dal male delle visioni stereotipate, provando a evitare di consegnarci a un sarcofago ideologico. Era un’autentica, rara, davvero intelligente azione di autarchia didattica.
Mutuando un vecchio slogan politico, il professore Giavatto non stava sicuramente a destra, non stava semplicemente a sinistra, stava in alto.
Il Professore Emmolo
Sapete cos’è il debate? Non sarò di certo io a farvi, adesso, uno spiegone sulle nuove o nuovissime, che poi sono sempre vecchissime, metodologie didattiche di filosofia, che peraltro non conosco manco per sbaglio; ma posso dirvi che temo lo sappiate già tutti, pur non sapendolo.
Il debate sarebbe un nuovo modo di fare filosofia a scuola, che destruttura anche l’organizzazione tradizionale della classe.
Sarebbe la prosecuzione, in chiave contemporanea, dell’ars oratoria, adottatissima oggi dal mondo anglosassone ma di origine “italiana”, un po’ come quasi tutto.
Facendo finta di intenderci, posso dirvi che è una sorta di rievocazione della disputa medievale. Ci si mette gli uni di fronte agli altri, l’immagine è quella, e si taglia il capello in 4 discorrendo di “argomenti”.
Sapete perché lo sapete? Perché è quello che facevamo nelle ore di Filosofia con il professore Emmolo.
Insegnare tradizionalmente filosofia avrebbe voluto dire insegnare la storia della filosofia, ma il professore si spingeva oltre, nell’impresa ardua, difficilissima, di farci filosofi. Già nelle intenzioni, quando ci interrogava esordendo con “…cerchiamo tre filosofi”, che diventavano “tre storici “nelle ore di Storia. Con questo rispondeva al doppio proposito, anche ambizioso e nobile, di darci credibilità e dignità umana se è vero che, come direbbe Platone, “non si può essere uomini senza essere filosofi”, essendo la filosofia un atto intrinseco dell’essere umano; rispondendo anche al proposito più generoso di darci credito. Persino autorevolezza. Io, non ricordo nessuno che, come il professore Emmolo, mi facesse sentire d’essere in grado.
In un’età in cui, personalmente, non mi sentivo all’altezza di nulla e arrivavo al paradosso di vergognarmi persino di esistere. Beh, in quel caso mi sentivo in grado, capace di pensiero e quindi capace di esistere. Sparivano titubanze e insicurezze che avrebbero nutrito sicuramente adolescenza e prima giovinezza e che mi avrebbero portato a mettere in dubbio qualunque certezza persino “s’il parlare è parlare” citando Campanella Tommaso.
Certo era un approccio evidentemente innovativo come direbbero i positivisti, che qualcuno ha faticato, prima a capire, e poi ad apprezzare.
Qualcuno nasce postdatato, come nel caso del professore magari, e qualcuno invece retrodatato come nel caso di qualche studente, che del Medioevo non avrebbe ricordato la disputa, ma altro.
Durante le ore con il professore Emmolo, la classe assumeva configurazioni nuove. Partecipavamo spontaneamente a queste controversie, discussioni, polemiche con lui che aveva il talento di renderci interlocutori alla pari. Ci ha fatto pensare, a quindici anni, di poter parlare seriamente di Schopenhauer, di Hegel, e di Bolscevichi e Menscevichi, di Leninisti e Trotskisti, e del tentativo di metterli insieme, oltre che di politica territoriale e locale. Ci prendeva sul serio. Non eravamo più al di qua e al di là delle cose, ma nelle cose e lui fra di noi, mai al di sopra, mai al di sotto. Si tentava insieme una “comprensione della vita” per dirla con Flaubert. Pur essendo noi, nei nostri sviluppi di pensiero senz’altro acerbi, tronchi di esperimento intellettuale, riusciva a attribuire valore anche alla più sibilata delle osservazioni. Io lo facevo onnisciente, potevo parlare con lui delle cose più disparate, dalla musica alla letteratura, dall’arte al fumetto, da Bach a Andrea Pazienza, potevamo sul serio toccare qualunque argomento in cui non si risparmiava, anche con considerazioni più taglienti e caustiche. Insegnava Filosofia attraverso divaricazioni di pensiero, salti in alto e in lungo del discorso, acrobazie intellettuali spesso contaminate anche da elementi più prosaici, di fattarelli legati al paese, ma necessari e emblematici forse per sviluppare punti di vista o conferire carattere alle osservazioni.
Diventava, infine, supporto prezioso nella preparazione agli esami di maturità, dove oltre che la sua capacità di fare connessioni all’interno di una cosmogonia fluida nella quale si muoveva con disinvoltura, faceva emergere una profonda vicinanza umana e psicologica.
La professoressa Fede
Silvana Fede insegnava Matematica e Fisica e ci teneva a ribadire lei e ci tengo a ribadire ora io, che al ‘classico, grazie a lei, facevamo “analisi”, matematica e freudiana.
Prima ancora degli attuali corsi gender fluid, che vedono una commistione non binaria tra classico e scientifico, e che hanno implementato le ore di Matematica, il nostro poteva dirsi un Liceo Classico già sperimentale, pur non essendolo.
Gli insegnanti di Matematica di solito, in un liceo classico, hanno anche un ruolo marginale, periferico. Non era questo il caso dei professori Fede, senior and junior, che in virtù delle loro rispettive personalità, che oggi definiremmo impressive, singolari, si sono fatti largo, diventando figure centrali all’interno dell’acting liceale, regalandoci aneddoti da Golden Globe. E per quanto non abbia conosciuto scolasticamente il professore Ignazio Fede, al secolo ‘Zuddufede, posso dire che nel mio naufragato tentativo di inchiesta neorealista sul Liceo Classico di Scicli, portato avanti fra le generazioni che mi hanno preceduta, beh è stata tra le figure più citate e rievocate dai suoi studenti.
La professoressa Fede aveva un serio talento nel tradurre l’articolata complessità di formule, teoremi, curve, principi e dimostrazioni in un divertissement, non alieno da risvolti rocamboleschi, tradotti tutti in lingua madre, ovvero in siciliano. Diventava davvero un gioco da edizioni MB. Da 0 ai 99 anni, Matematica e Fisica mi pare diventassero improvvisamente accessibili.
Certo anche a scapito di semplificazioni, venivano in qualche modo mediocrizzate alcune vicende biografiche. Ricordo il profilo psicologico di Archimede, ad esempio, che veniva ridotto come una potenza, a nostro vantaggio, e a quel punto era uno di noi, un eroe da romanzo picaresco “ca sa strafuttiu a nura nura Sirausa Sirausa, vuciuniannu - eureka eureka -! Erano espedienti di semplificazione narrativa efficacissimi per capire, ricordare, imprimere.
Decisamente poco sensibile al discretissimo fascino del lecchino, al contrario la Fede amava l’intelligente autentico, anche un po’scapigliatello, ma che subiva il carattere seduttivo dei numeri e delle architetture trigonometriche, che con i numeri, insomma, sapeva farci.
I modi erano molto originali.
Individuava e riconosceva menti a suo dire “matematiche” e in virtù di queste le medie altrettanto matematiche potevano anche venire in secondo piano.
Io fui senz’altro agevolata da questa speciale edizione di valutazione.
Le parti e le battute più originali le riservava all’insolenza del giovane questuante e querulo. Pensate, ad esempio, per un attimo, cosa voglia dire per chiunque insegni in una scuola affrontare la seccatura della correzione dei compiti in classe. Che razza di punizione è? Una media di venti compiti per classe per un minimo di cinque classi sono cento (perché io la Matematica, come vedete, la so). Cento maledettissimi compiti, tutti uguali, da visionare per individuarne i limiti, gli errori e in cui la variazione su tema, è, anzi era rappresentata, dal capovolgimento nevrotico della matita bicolore rossa e blu. Ecco perché poi quando un moccioso fra noi aveva l’ardire di pronunciarsi dicendo “prof. ma mi ha segnato in blu un errore rosso” i prof. avrebbero solo dovuto imbracciare un fucile e sparare in aria, e la cosa si sarebbe dovuta registrare come legittima difesa.
La professoressa Fede che di corsetti e strozzature pochi ne teneva, aveva adottato invece una tecnica di scazzo alla risposta da Oscar. Ogni qualvolta qualcuno avesse l’ardire di chiedere se per caso avesse corretto i compiti in classe, lei metteva a posto subito tutti, vendicando cent’ anni di soprusi e abusi sui professori, imbracciando un fucile immaginario, paladina di un 25 aprile, di un‘emancipazione dalla penna rossa e blu, rispondendo “io agghiu quattru figghi fimmini”, sottotitolo: non so se mi spiego. Non uno, non due, non tre figli. Ma ben quattro. Ripeto. Non una, non due, non tre ma ben quattro, e di sesso femminile. Ciao Maschio!
Avete idea? Femministe della terza e quarta ondata, d’Italia e del Mondo, se siete all’ascolto, prendete appunti per prossime campagne. La specifica sul sesso delle figlie rappresentava sessant’anni di storia dell’emancipazione spiegati in quattro lemmi. Se vi state battendo per fare in modo che la sanità pubblica si occupi e si preoccupi anche del ciclo mestruale, come sarebbe opportuno, sappiate ora che dovremmo avere anche uno sportello di supporto e consulenza per la maternità ulteriore, se si è madri di bambine, perché la femmina appurato chenon sia un cervello semplice, ha una struttura forte, complessa alla quale spesso il Mondo non risulta ancora preparato, adeguato. E che se l’adolescenza di un ragazzo, può esporsi a una serie di rischi e turbolenze di valore, poniamo 6, quella di una ragazza può raggiungere valori anche molto più alti.
Ci dimostrava, inoltre, in quattro e quattro otto, che dietro la trasmissione di un programma televisivo, c’è, o meglio c’era un tubo catodico, che faticava enormemente con impulsi e trasmissioni di raggi, bobine e fluorescenze per mantenere un’immagine, e che lamentarsi per l’interruzione della trasmissione e dei programmi, voleva dire guardare sempre lo stesso dito e mai la solita luna.
Altro ruolo che Silvana Fede si ritagliava era quella di supporto psicologico, il ruolo da “vai da uno bravo”. Lei rappresentava il nostro “uno bravo”, per parlare dei nostri “problemucci”. Insomma, sapeva che era un duro lavoro e qualcuno doveva pur farlo. Ci beccavamo in virtù di questo, diversi “va scrifinchiassi”, vari “tu ci sei o ci fai?” e molte altre repliche, che in barba alle attuali prassi pedagogiche, non solo ci hanno fatto divertire ma erano tutte meritatissime.
Era noto il fervore cattolico, la sua fede religiosa, nomen omen. Era, pertanto, prodiga nel dedicarci preghiere, accendendo candele, ceri e recitando rosari anche per noi, per le nostre intemperanze adolescenziali.
Uno grande promise di accenderlo quando entrò il professore di lettere, interrompendo la lezione perché cercava un righello. Era evidentemente una gag orientata a cavalcare la blasfemia militante cui aderiva la mia classe.
La nostra classe aveva deciso di non sottostare all’intrusione del potere spirituale nelle faccende temporali del nostro tran-tran quotidiano. Così insensibili alla poesia del raggio di sole che scende su un alto crocifisso, decidemmo all’unanimità di deporre l’afflizione di Gesù e la sua passione, riponendo il sogno cristiano nel cassetto della cattedra. Questo nostro personalissimo illuminismo di classe era stato seguito con discreto interesse dal professore di Italiano che si sentì dunque di doverlo sostenere, di consacrare la nostra rivendicazione di laicità di Stato, a suo modo.
Entrò durante l’ora di Matematica, cercando una riga, (lui che non aveva mai neanche scritto alla lavagna e non aveva mai interrotto un’altrui lezione). Recitando una ricerca disperata, a un certo punto, con soddisfazione esclamò “eccola! “, tirando fuori insieme al sollievo anche il crocifisso. Noi avremmo dovuto espiare tutto con un ritiro a Nomadelfia e la professoressa Fede, tra il divertito e il contrito, minacciò d’ essere costretta, a quel punto, a accendere un cero gigante, enorme, e di partecipare non si sa a quante processioni dell’” addolorata”, per perdonare l’insolente blasfemia.
Essendolo
Il professore di educazione fisica
Infine, last but not least, Il mio preferito, il prof. di educazione fisica.
C’è una domanda che qualifica, tuttora, la mia stima nei confronti dell’altro ed è “in educazione fisica eri bravə? Se mi si risponde “non tanto”, comincio a avvertire un batticuore, riconosco la razza. Se poi una percentuale irrisoria mi risponde “beh, considera che sono stat* bocciat*”, sono subito fiori sui miei cannoni, comincio a disegnare stelle di Davide, e penso, “lo sai che siamo un popolo eletto, sì? Ed è nostro il regno dei cieli!”.
Perché il prof. di educazione fisica, al secolo “pallammano”, mi regalò un shogno come direbbero i brianzoli e Briatore. Il debito in educazione fisica che mi ha fatto sentire, per la prima volta, dotata di un super potere. Capace, cioè, di rendere possibile, l’impossibile.
Tuttora lo direi ai colloqui di lavoro e se fosse possibile lo metterei appena sotto il cognome sul CV. Quando mi chiedono di indicare tre pregi e tre difetti, lo inserisco tra i pregi. Segno zodiacale? Leone con debito in educazione fisica.
Sarà forse perché la mia bocciatura fu subito benedetta a casa, da mio nonno in particolare, che per prevenire ogni accenno di rimprovero da parte dei miei, accolse subito questa notizia come fosse la notizia che stavamo aspettando, con un sorriso davvero compiaciuto, dicendo” ooooh brava, come Severino (Santiapichi n.d.r.)!”
Questo debito me lo sono guadagnato, non è arrivato così a gratis! Con sacrificio e impegno, ore e ore di riscaldamento appiccicata all’unico termosifone funzionante a scuola, durante le ore di educazione fisica.
Disertare l’ora più militarista del sistema scolastico italiano era il mio mestiere.
Oltretutto, gli sport scolastici, fateci caso, sono uguali ai numeri che fanno fare alle foche negli acquari, “ora dovete far per palleggiare la palla rossa sul muso” e voglio svelarvi un segreto: non sono una foca!
In generale, nutrivo disprezzo per gli sportivi. Tranne che per i tennisti. E i golfisti. E i rugbisti. E i nuotatori. E i cavallerizzi. E i piloti. E i ballerini. Che sono, in realtà, umanisti o matematici prestati alla fisica del corpo.
Un dribbling non vale di certo un Teorema di Pitagora.
Questo fu l’alibi ideologico definitivo.
La verità è che disertavo la prova della mia incapacità. Non conosco nessuno più incapace di me negli sport.
Non sono sportiva sotto nessun profilo. Bisogna superare i propri limiti? Accettare la sconfitta? Celebrare la vittoria? L’importante è partecipare?
Quante sciocchezze in una sola civiltà del benessere. Tutta questa retorica sullo sport educativo, sull’essere tautologicamente “sportivi”, sulla disciplina, sull’ esercizio fisico che completa quello della mente, andrà forse bene come commento sonoro ai cinegiornali Istituto Luce, ma non per me. Diciamo, una volta per tutte, che anche Giovenale con il suo “mens sana in corpore sano”, ha avuto degli esegeti frettolosi, molto frettolosi.
Perché non mi facevo esonerare?
Perché ci sono dispiaceri irrinunciabili.
Io, posso finalmente confessarlo, in otto anni di scuola dell’obbligo, non ho seguito, effettivamente, nessuna lezione. Costantemente altrove, perennemente distesa su un’amaca del pensiero, rannicchiata fra sogni e proiezioni fantastiche, in un’arcadia ideale dalla quale mi destavo con coreografici stiracchiamenti soltanto per afferrare alcuni passaggi decisivi. Per il resto, ero a scuola principalmente per sognare, per ridere e stare con gli altri.
Quando arrivai al liceo, fui costretta a rivedere i miei palinsesti onirici. Un disturbo della disattenzione mi strappava al sogno. Mi rapiva più del sogno. Spesso non solo mi richiamava al presente, ma mi rimandava a un passato che trovavo, finalmente, più seducente del futuro. Mi sentivo, cioè, costretta dal piacere a sacrificare la disattenzione a favore dell’attenzione. E ricordo proprio il rammarico, a denti stretti, ero costretta a ammettere “oggi non potrò sognare”.
Il merito o il demerito di questo esproprio di fantasia, per quello che mi riguarda, va a questa irripetibile combinazione di professori, per me, esemplari maestri, che hanno portato avanti una missione silenziosa e preziosissima, insinuando spesso la meraviglia fra le pagine del quotidiano, e i cui effetti terapeutici o collaterali riaffiorano nei destini generali di un unico grande corpo di studenti che sa o non sa di custodirli nel proprio tessuto connettivo.
Ho parlato in modo forse anche stucchevolmente fanta-realista, frugando tra le mie sopravvivenze emotive e sentimentali, aderendo più a quel che mi rimane che a quel che è effettivamente stato.
Ci sarà chi non si riconoscerà in questa rappresentazione che pecca d’essere più espressionista che verista. Ci sarà senz’altro chi avrebbe voluto un liceo migliore così come un mondo migliore. I mondomiglioristi ci sono sempre, c’amma fa’.
Vi sarà ancora chi avrebbe voluto avere un voto in più e un prof. in meno.
Vi sarà chi non avrebbe voluto metterci piedi in questo liceo.
Ci sarà poi un mio fratello figlio unico, convinto che anche chi non legge Freud possa vivere cent’anni. Come dargli torto. E un altro, e a lui va il mio più sentito accoramento, che si è sentito sfruttato, represso, calpestato e odiato all’interno di questo contesto.
Che dire, avevo scritto sulla parete del bagno fumatrici di scuola: “se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo Mondo”.
Potremo, in ogni caso, riconoscerci per un attimo in questo patrimonio genomico condiviso, ritrovarci in questa genealogia comune e partecipare, senza poi pensarci troppo, agli inesauribili novantadue minuti di applausi che il nostro liceo, fosse solo il fatto d’essere nostro, merita.