Ragusa - Dopo alcune riflessioni concernenti il dipinto maltese del San Giovanni Battista giacente, esposto nella mostra ragusana “Caravaggio - ultimo approdo” presso la chiesa della Badia, non si può fare a meno di evidenziare l’esistenza di un altro esemplare, il San Giovanni Battista disteso, un olio su tela datato 1610 e appartenente ad una collezione privata di Monaco di Baviera. Considerare questo dipinto risulta necessario per allargare l’orizzonte, dato che insieme alla tela maltese appartiene allo stesso ambito stilistico, affronta il tema del giovane santo disteso impiegando la medesima iconografia, ma soprattutto entrambe le due opere vengono identificate in un dipinto menzionato tra le righe di una corrispondenza epistolare seicentesca.
Il San Giovanni Battista disteso di Monaco per gli addetti ai lavori non è una novità, noto sin dagli anni Settanta del secolo scorso, è stato protagonista di dibattiti controversi e può vantare numerosi studi critici di autorevoli studiosi. Tra questi la maggior parte, come M. Gregori, M. Marini, J. T. Spike, V. Pacelli, solo per citarne alcuni, hanno dimostrato posizioni favorevoli sull’autografia caravaggesca, diversamente altri studiosi, tra cui F. Bologna, hanno assunto posizioni più caute, considerando la tela in questione una copia seicentesca tratta da un’invenzione iconografica del Caravaggio. Dunque, nonostante oggi la maggior parte della critica abbia riconosciuto la mano del grande artista lombardo, qualche remora ancora persiste!
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A questo punto ci troviamo a costatare l’esistenza di due opere molto simili tra loro, lievemente differenti per le dimensioni della tela e per alcuni piccoli dettagli iconografici, in particolare il posizionamento della croce di canna all’interno dell’impianto compositivo; a terra nel dipinto tedesco, ai piedi del santo con il serpente tentatore avvinghiato in quello maltese. Le due tele potrebbero essere entrambe del grande pittore lombardo, forse soltanto due copie derivanti dallo stesso prototipo originale andato perduto, o altrimenti una potrebbe essere l’originale, l’altra solo una copia più o meno fedele; insomma le ipotesi sono diverse e i dubbi rimangono. L’esistenza di repliche di dipinti di successo tra la fine del Rinascimento e gli albori del Seicento non è una novità, dato che si sviluppa sia il fenomeno del collezionismo principesco che un fervente mercato; al contrario Caravaggio non si limita a copiare, ma introduce esigue varianti costituite da piccoli particolari all’interno della medesima invenzione iconografica, altrimenti concepisce varianti compositive in cui prendono posto i medesimi elementi iconografici. Difatti esistono vari esemplari di opere caravaggesche, alcuni sono copie di autori ignoti o conosciuti, altri, invece, pur presentando delle varianti compositive o iconografiche, sono riconosciuti come autografi; a tal proposito si pensi alle due tele della Cena in Emmaus (una custodita nella Pinacoteca di Brera a Milano, l’altra nella National Gallery a Londra).
Nel caso specifico preso in esame, considerato il parere favorevole di buona parte della critica, il dipinto di Monaco dovrebbe essere l’originale, mentre l’esemplare maltese solo una copia con alcune varianti. Invece, alcuni studiosi attribuiscono proprio quest’ultimo dipinto al maestro lombardo in quanto il posizionamento della croce corrisponderebbe alla descrizione di un inventario mediceo del 1691, dove viene menzionato come opera di Caravaggio un “San Giovanni Battista disteso che ha ai piedi una croce di canna”. Ma come, argutamente, suggerisce V. Sgarbi “i piedi possono non essere intesi alla lettera ma come a terra”, riconoscendo quindi la mano caravaggesca nel dipinto tedesco.
Lasciandoci alle spalle la questione attributiva, occorre evidenziare come entrambe le opere siano state identificate con una delle due tele raffiguranti San Giovanni, citate nella lettera, datata 29 luglio 1610, indirizzata al cardinale Scipione Borghese in cui Deodato Gentile, vescovo di Caserta, scrive della morte dell’artista lombardo, elencando tra i beni dell’autore tre quadri “li doi S. Giovanni, e la Madalena” (la Maddalena e due San Giovanni Battista di cui uno si trova nella Galleria Borghese a Roma). Questo documento epistolare, seguito da altri, si riferisce ai giorni successivi la scomparsa dell’artista e risulta fondamentale per capire le dinamiche che hanno contraddistinto gli ultimi giorni del secondo periodo partenopeo.
Dalla ricostruzione storiografica siamo a conoscenza che nel luglio del 1610 Caravaggio parte da Napoli, precisamente dal porto di Chiaia, imbarcandosi su di una feluca per raggiungere le coste laziali e avvicinarsi a Roma nella speranza di ottenere il perdono papale. Egli porta con sé i tre dipinti (citati nella lettera), commissionatigli dal cardinale Scipione Borghese, grande estimatore dell’artista e figura chiave per ottenere l’ambita autorizzazione a ritornare nella Città Santa. Sbarcato a Palo, nella costa romana, egli viene arrestato ma dopo qualche giorno rilasciato (sicuramente qualcuno intercede) e intraprende il cammino verso nord, lungo la costa maremmana dove troverà la morte a Porto Ercole. Nel frattempo, la feluca su cui aveva viaggiato torna a Napoli con tutti i suoi beni, compresi i tre dipinti che diventeranno materia di contezioso riguardo la proprietà a tal punto che, dopo tante controversie, dovrà intervenire il viceré di Napoli, don Pedro Fernandez de Castro, conte di Lemos, per risolvere la questione; uno dei due San Giovanni verrà consegnato al cardinale Scipione Borghese, mentre dell’altro e della Maddalena non si conoscono le destinazioni.
Sulla base di questa ricostruzione storica, della missiva di cui sopra e di una scrupolosa analisi stilistica, gli storici dell’arte V. Pacelli e M. Marini identificarono proprio nel dipinto di Monaco l’altro quadro del San Giovanni, escludendo di conseguenza il dipinto maltese, riconosciuto invece dai curatori della mostra ragusana.
Oggi il dipinto di Monaco sembra mostrare verosimilmente una maggiore vicinanza alla maniera del naturalismo caravaggesco per la presenza di elementi stilistici e tecnici più convincenti, supportati da un’abbondante letteratura critica e da un’attenta ricostruzione delle vicende. Dunque bisogna porsi delle domande: come possiamo allora accogliere con serenità l’autografia caravaggesca nel dipinto maltese esposto a
Ragusa? E in che modo possiamo identificarlo con una delle tre tele che il pittore lombardo portò con sé per ottenere l’agognata salvezza?