Vittoria - Non so perché lo chiamano così, il moscone, “come mosche chiare sull’azzurro del mare”.
“Picciuotti, preparatevi, oggi si va al mare” dice la cugina “LA GRANDE”. Ero a casa della zia, come tutte le estati, a trascorrere qualche giorno di vacanza al termine dell’anno scolastico. Adoravo mia zia, ma la mia voglia di andare in vacanza a Vittoria era motivata, soprattutto, dalla certezza di divertirmi con i miei amati cugini. D’estate sentivo ‘il richiamo della foresta’; andare a Vittoria era una necessità. Quando arriva la primavera, ancora oggi, sento quel richiamo.
La cugina “LA GRANDE” aveva comprato con i proventi del suo primo lavoro una Cinquecento azzurra, col tettuccio apribile, che guidava come se fosse la Duetto Spider dell’Alfa Romeo e, ogni tanto, ci faceva provare l’ebbrezza della gita al mare. Fa niente se eravamo in sei e la carta di circolazione prevedeva che dentro ce ne potessero entrare solo quattro, dopotutto non era così lontano Scoglitti, solo otto chilometri, in quattro o in sei per noi era ininfluente; fanculo carta di circolazione, regole assurde e polizia stradale (brave ragazze, ma incoscienti). Nella cinquecento caricavamo anche: ombrellone, borsoni con il necesser per la spiaggia e beni alimentari per la sopravvivenza. Ancora oggi, come canta Tiziano Ferro, non me lo so spiegare, eppure riuscivamo ad incastrarci in maniera geometrica, soffrendo, nonostante il tettuccio spalancato, solo un po’ il caldo. Ma non ce ne curavamo molto.
Quindi non ce lo siamo fatte ripetere due volte e, nel giro di mezz’ora, eravamo pronte per la partenza e dopo quindici minuti di viaggio eravamo già in piazzetta, a Scoglitti, a scaricare il bagaglio diretti in spiaggia, di fronte “o scuogghiu i fora”.Era lì il ritrovo con i compagni di scuola della cugina più giovane.
Gli amici ci sono venuti incontro e nonostante la “stupidera” adolescenziale ci hanno aiutato a piantare l’ombrellone arcobaleno e a seppellire l’anguria sotto la sabbia per tenerla al fresco. Eravamo una decina, affiatati e felici. Quando ci si incontrava era sempre una festa. Un po’ meno lo era per i vicini di ombrellone; per loro eravamo, piuttosto, una fastidiosa presenza.
Generalmente. espletati i convenevoli, ci si buttava in acqua per smorzare il calore accumulato durante il viaggio e si cominciava a giocare a pallavolo sfruttando ogni occasione ridicola per prenderci in giro. Quel giorno, invece, dopo una mezz’ora, stanchi del gioco, non volendo sprecare tempo, qualcuno propone un giro sul moscone.
Uno dei mie più grandi desideri irrealizzati era, d’estate, fare un giro in moscone e la speranza che i miei genitori mi dessero i soldi necessari per noleggiarlo si trasformava in amara delusione tutte le volte che glieli chiedevo. Né io né mia sorella sapevamo nuotare e quindi: “non se ne parla proprio”
Ero raggiante. Finalmente, dopo una veloce raccolta fondi, il sogno sarebbe diventato realtà, ce l’avrei fatta a salire su un moscone a dispetto delle ansie dei miei genitori. D’altronde che cosa poteva mai succedere??
Nel frattempo LA GRANDE era in spiaggia a chiacchierare amabilmente con le sue amiche noncurante della nostra alzata di ingegno.
Il nostro moscone non aveva pedali, ma il baldo giovane che aveva permesso che la sua carta di identità rimanesse ostaggio del noleggiatore, remava con energia e passione, convinto di essere un capitano di lungo corso. Gli altri nove parassiti, chi seduto nel seggiolino, come me, mia sorella e la cugina piccola, chi appollaiato qua e là lungo i fianchi del natante, ci facevamo trascinare felici e … “cantanti”. Eravamo in balia, senza timori e senza dubbi, dei nostri amici cui avevamo chiesto, però, di non andare troppo al largo.
Ma fra il dire e il fare, è proprio il caso di dire, c’è di mezzo il mare e senza rendercene conto ci accorgiamo di essere distanti dalla riva, là dove non si tocca.
Io, attivato il sesto senso, ero saldamente aggrappata al seggiolino, mia sorella, seduta accanto a me, guardava l’evolvere degli eventi con circospezione. Comunque non eravamo serene. Ridendo e scherzando qualcuno, qua e là, comincia a tuffarsi in acqua incurante del rollio causato. Tutto sarebbe proseguito nella normalità se, improvvidamente, Flik e Flok non avessero deciso di tuffarsi contemporaneamente dall’angolo sinistro del moscone. Il salto provoca uno sbilanciamento esagerato del natante. Io non ricordo perché, so solo che un presentimento mi fa girare verso mia sorella nel momento preciso in cui scivola pericolosamente in mare che la inghiotte per due secondi e, grazie alla famosa legge del ‘corpo immerso nel liquido’, la sputa, però, fuori immediatamente. Appena riemersa la vedo aggrapparsi al moscone con noncuranza, risalire sul seggiolino e, come se nulla fosse successo, aggiustarsi la spallina del costume che se n’era scesa a causa dell’attrito con l’acqua. Era solo un po’ infastidita dal bagno fuori programma.
Io ero diventata una statua di marmo. Quei due secondi credo siano stati i due secondi più lunghi della mia vita.
“Sorella, tu non lo sai, ma sai nuotare” le dico appena riprendo fiato e il terrore si trasforma in risata isterica. Lei mi guarda un po’ stranita, ma per niente turbata, non credo si fosse resa conto del rischio che aveva corso e, con i capelli bagnati sugli occhi e la faccia di chi cerca dov’è la battuta, vedendomi sghignazzare, risponde indispettita: “In che senso?”
Non gliel’ho mai confessato che dalla paura m’ero fatta la pipì addosso. Meno male che c’era acqua dappertutto.
Quando abbiamo toccato terra, con la stessa, irrefrenabile risata isterica, ho raccontato alla GRANDE, che non si era accorta di nulla, quello che ci era successo e ho anche giurato che non sarei mai più salita su un moscone né avrei raccontato l’accaduto ai miei genitori.
Non avevo fatto i conti con la linguaccia della GRANDE la quale, non appena rincasati, per farsi bella, racconta a mia madre che eravamo andate in giro col moscone e: “mi ficiru nesciri u cori”. Mia madre, non sapendo che il moscone si chiamasse moscone, mi molla un ceffone, sulla fiducia e a prescindere, e mi dice: “chè muschigghiuni nun c’hai a ghiri” (con i mosconi non ci devi andare)
Solo dopo un paio d’ore trascorse sviluppando il copione di una tragedia greca ‘ho capito che non aveva capito’ che i mosconi erano natanti e non giovanotti che provavano a togliermi l’ingenuità.
Quando le ho spiegato cosa fosse effettivamente successo i ceffoni sono diventati due: “accussì t’ansigni!!! t’avevo detto che non ci dovevi salire”
Quindi un ceffone, forse, l’ho meritato, ma il secondo, secondo voi, non sarebbe ora di restituirlo alla GRANDE? Sono trascorsi solo 55 anni!!
Luciana