Modica - Gentile Redazione,
“Nessuno possiede le città” diceva Jane Jacobs.
Antropologa, attivista statunitense, scrittrice e giornalista libera e indipendente con una penna controcorrente capace di opporsi ai giganti dell’edilizia newyorkese degli anni ‘50 sfidandoli con visioni innovative sulla vita urbana.
Le sue idee pionieristiche hanno rimodellato la pianificazione urbana e rappresentano un’eredità che può essere utile ancora oggi per guardare alle nostre città.
Aveva da poco compiuto 18 anni quando scrisse i primi articoli per la rivista Vogue occupandosi dei quartieri newyorchesi dei fiori, della moda, delle pellicce e dei diamanti, quando iniziò il suo fervente interesse per la vita della città e l’economia urbana.
Fu accesa sostenitrice del recupero a misura d’uomo dei nuclei urbani criticando fortemente la concezione di città come spazio per essere attraversato dalle automobili.
Visse nel quartiere newyorchese di Greenwhich Village che difese dai nuovi progetti residenziali e di demolizioni in favore della costruzione dell’autostrada urbana Lower Manhattan Expressway, dichiarando guerra aperta agli spregiudicati progetti dei grandi master builders del XX secolo per proteggere il suo villaggio e il suo paesaggio urbano.
Accanto alle sue manifestazioni e proteste per strada inizia a scrivere un testo che la renderà famosa come teorica e attivista rovesciando i tradizionali principi urbanistici che avevano come base la pianificazione urbana separata dalla vita della comunità.
I suoi principi furono guidati da un approccio quasi etnografico, da un’osservazione diretta della vita sociale ed economica che si svolge in città, tra i negozi, le strade, sui marciapiedi, nei parchi.
Jacobs decide di occuparsi di “questioni semplici e comuni: ad esempio, quali specie di strade urbane siano sicure e quali no, perchè certi parchi siano meravigliosi, mentre altri sono moralmente - e a volte mortalmente - pericolosi; perchè certi slums (bassifondi) rimangano tali, mentre altri riescono a rinnovarsi spontaneamente; quale sia la ragione per cui il centro della città si sposta; che cosa sia (ammesso che esista) un vicinato urbano, e quali funzioni eventualmente esso svolge in una grande città.”
Essa infatti si occupò “di come le città funzionino nella vita reale, perchè questo è l’unico modo per capire quali principi urbanistici e quali metodi d’intervento possano giovare alla vitalità sociale ed economica della città, e quali invece tendano a mortificarla”.
Nel suo famoso saggio Vita e Morte delle grandi città (pubblicato da Einaudi) rovescia i tradizionali principi urbanistici (che ancora oggi rappresentano argomento di dibattito tra gli architetti urbanisti) preferendo la “misura umana” al calcolo edilizio, un vero e proprio attacco verso i metodi di pianificazione urbana e ristrutturazione urbanistica ortodossi, contro i quali contrappone i dati eterodossi di una misura umana perchè l’organismo reale di una città deve valere di più delle regole astratte. I pianificatori, invece, condizionati dai loro codici operativi e da una vera e propria ideologia avulsa dai fatti, finiscono per separare la progettazione dalle esigenze della comunità creando così degli squilibri che aggravandosi rischiano di portare le città alla morte.
La Jacobs per riuscire a capire come funzionasse il mondo apparentemente misterioso e contraddittorio delle città iniziò ad osservare da vicino e con la minor prevenzione possibile gli spettacoli e gli eventi più comuni, cercando di afferrarne il senso e di trovare gli eventuali fili conduttori che li collegassero a qualche principio.
Capì infatti che in ogni città esistono funzioni urbane e che queste si distinguono in funzioni urbane in senso stretto (perchè dipendenti soltanto dal disegno della città e dalle destinazioni d’uso) come i marciapiedi e le strade e funzioni urbane in senso largo (perchè non dipendenti solo dal fattore urbano) come la sicurezza, lo sviluppo dei contatti umani e l’assimilazione dei ragazzi. Jacobs dimostrò come tra queste funzioni esista uno stretto collegamento e come le funzioni in senso largo siano essenziali.
Sicurezza, sviluppo dei contatti umani e l’assimilazione dei ragazzi sono le funzioni essenziali che rappresentano la natura specifica di ogni città.
Partendo dall’osservazione dei marciapiedi e delle strade e dal loro ruolo, ad di là del semplice fatto di consentire il transito dei pedoni e lo scorrimento dei veicoli, Jacobs nota che se c’è una netta separazione tra spazi pubblici e privati, in particolare tra i marciapiedi come sedi di vita collettiva e le case come luogo della privacy (separazione che non esiste più nei complessi edilizi residenziali dove si ha in comune con gli altri tutto o niente, e quindi, in ultima istanza, niente), se le strade sono sorvegliate dai loro “naturali proprietari” come i negozianti ecc. (cioè se esiste un numero sufficiente di negozi e di altri luoghi pubblici), e se i marciapiedi sono frequentati con sufficiente continuità lungo tutto l’arco della giornata (sia per varietà dei luoghi pubblici e della rete commerciale, sia perchè una strada animata “costituisce di per sé un’attrattiva per altra gente”che non solo la frequenterà, ma starà spesso alla finestra, sosterà sulle panchine se ci sono ecc.), allora la strada è sicura, l’intero potenziale dei contatti umani si realizza e i ragazzi acquisiscono naturalmente le forme di vita e il costume della città.
Ma questo rapporto tra funzioni urbane non basta a livello di quartiere poiché deve essere esteso a tutto il resto della vita cittadina.
Per poter replicarsi è necessario però che ci sia un quadro urbano che fornisca ambienti ed occasioni per lo sviluppo di queste funzioni non in maniera separata le une dalle altre ma in un solo ambiente organico e unitario per tutte (la città nel suo insieme).
Il reticolo urbano oggetto dell’urbanistica dovrebbe per Jacobs tener conto di ciò che deve essere studiato sul piano urbanistico (il disegno della città e le destinazioni d’uso) da ciò che la loro struttura stessa determina nel senso di comportamenti umani.
Una eredità quella che ci ha lasciato Jacobs senza precedenti e che alla luce delle attualissime crisi che stanno vivendo i nostri centri storici (grandi o piccoli che siano) fornisce una chiave di lettura talmente ovvia che sfugge alla nostra attenzione perchè come diceva Lei attenta osservatrice: “è più facile notare per la prima volta le cose lì dove esse non sono rese ovvie dall’abitudine”.
E se volessimo analizzare con la lente di Jacobs la crisi che sta attraversando il centro storico della nostra città? A cosa dovremmo guardare.
Oggi qualcuno individua alcune soluzioni alla crisi proponendo: fitti più bassi per i locali commerciali che sono rimasti vuoti, un calendario di eventi musicali che catalizzi più persone in centro, lo studio di un piano particolareggiato in accordo con associazioni di categoria, ecc.
Ma rischiamo di perdere tempo ancora e di focalizzare l’attenzione sugli effetti che la crisi del centro storico ha determinato e non sulla causa.
Forse ci stiamo occupando dei protagonisti sbagliati? Sì, e vedremo il perchè.
Il succedersi di chiusure di numerose attività commerciali all’interno di un contesto urbano non ha alcuna relazione con il prezzo del fitto a metro quadro, è sintomo della mancanza di funzioni essenziali nel reticolo urbano di riferimento.
Infatti se si analizzano i prezzi al metro quadro dei locali affittati o in affitto in altre zone della città dove i servizi, le strade, la varietà di attività commerciali, o di forme diverse di soluzioni abitative anche se in un apparente caos urbano coesistono, ci accorgiamo come questi prezzi siano sostenibili. Questa sostenibilità è data dalla capacità in quel contesto (seppur caotico urbanisticamente parlando) di determinare il nascere di funzioni essenziali che rappresentano come abbiamo visto la natura della città e che ne garantiscono la sopravvivenza.
Quindi ciò che manca nel nostro centro storico sono le funzioni essenziali che si sono sgretolate per vari motivi: mancanza di politiche abitative rigenerative che consentano a tutti di poter adeguare la propria abitazione alle esigenze energetiche, strutturali e abitative che sono in continua evoluzione; scarsa varietà di attività commerciali sia per categoria che per fascia di prezzo; mancanza di luoghi comuni di incontro e svago come piazze e strade arricchite da nuove modalità d’uso: le strade dei quartieri che si trasformano in mercatini a cielo aperto in occasione delle feste di quartiere o che vengono restituite ai cittadini per poter pedalare, camminare incontrarsi o mangiare assieme. Non si tratta solo di agire sul fronte della pedonalizzazione ma di rendere le strade più attrattive e belle: ricoprendole con pavimentazioni particolari (come in Portogallo) o di opere di street art.
Mancanza di offerte culturali che escano dagli schemi preconfezionati dei teatri e dei musei ma che coinvolgano in luoghi nuovi e inusuali i cittadini coinvolgendoli con l’esperienza, specie chi in un teatro o museo non è mai entrato;
Sono mancate anche le condizioni per far crescere il commercio di qualità capace di portare creatività e valore sperimentando nuovi sistemi di regole per favorire l’imprenditoria creativa, ad esempio rendendo possibile l’apertura di negozi temporanei come l’iniziativa Pop up to date di Anversa.
Sono mancate politiche di coesione sociale che individuino gruppi sociali inaspettatamente legati più di altri ai centri storici come anziani e giovani.
I ragazzi non hanno l’auto e quindi il centro storico diventa parte della loro identità, con la conseguenza che se ci sono poche attività il desiderio principale diventa quello di scappare, di abbandonare il centro. Renderli protagonisti del futuro del luogo in cui vivono è la soluzione per evitarne la fuga.
Dal canto loro gli anziani invece sono coloro che hanno smesso di guidare e quindi desiderano un accesso facile ai servizi, che se non vengono resi accessibili agli anziani costituiscono un elemento problematico anche per le famiglie e le altre fasce di popolazione.
Una urbanistica migliore riparte da luoghi e spazi progettati e condivisi con le persone: l’insegnamento di Jane Jacobs è ancora più valido nei centri in cui le diverse parti della popolazione devono necessariamente collaborare per mantenere in vita il ramo dell’albero su cui sono seduti.
E poi Jacobs tra le funzioni essenziali annovera la sicurezza.
Uno degli aspetti essenziali dei comportamenti urbani è quello della spontaneità.
Abbiamo visto come i comportamenti sociali dei cittadini (funzioni urbane) siano in rapporto con le caratteristiche urbane e la sicurezza urbana - cioè la sicurezza anche nei confronti degli sconosciuti - dipende, almeno in parte dall’esistenza di una rete di sorveglianza spontanea e, per molti aspetti inconscia.
Si tratta della rete costituita dai negozianti e dai passanti che frequentano la strada lungo tutto l’arco della giornata.
Va osservato che questa rete di sorveglianza è spontanea non solo nel senso che non è organizzata, ma anche nel senso che non comporta alcuna specializzazione.
Chi vive in un quartiere vivo e vitale ha garantita la sicurezza solo perchè possiede un ordine urbano che è relativamente facile da mantenere in quanto la strada è popolata di sguardi.
Si tratta tuttavia di un ordine quanto mai complesso, composto da un numero enorme di fattori, la maggior parte dei quali possono ritenersi, in un modo o nell’altro specialistici, e la cui azione si combina nel marciapiede. Quest’ultimo invece non ha in sé nulla di specialistico: e appunto in questo sta la sua forza.
Inoltre Jacobs sottolinea come non esista alcuna alternativa a questo tipo di sorveglianza.
Basta, per rendersene conto, confrontarla con quella che potrebbe essere assicurata dalla sola polizia.
Cito ancora Jane Jacobs: “La prima cosa da capire è che l’ordine pubblico nelle strade e sui marciapiedi della città non è mantenuto principalmente dalla polizia, per quanto questa possa essere necessaria: esso è mantenuto soprattutto da una complessa e quasi inconscia rete di controlli spontanei e di norme accettate e fatte osservare dagli abitanti stessi. In certe zone urbane come ad esempio in molti vecchi complessi di case popolari e in molte strade con rapido ricambio di popolazione — il mantenimento della legge e dell’ordine sui marciapiedi è affidato quasi interamente alla polizia e a guardie speciali: ebbene, queste zone sono vere giungle, perché non c’è polizia che basti a garantire la civile convivenza una volta che siano venuti meno i fattori che la garantiscono in modo normale e spontaneo”.
È dunque lecito affermare che nel quadro di un assetto urbano efficace la sorveglianza urbana, cioè il controllo del comportamento della gente, si attua in gran parte (la parte per la quale la polizia non è necessaria e non sarebbe efficace) con il concorso di tutti e senza che alcunché sia prescritto ad alcuno: cioè solo in forza delle disposizioni umane nella loro espressione spontanea e occasionale.
Avete capito a questo punto chi sono i veri protagonisti del cambiamento e che generano la crisi?
I residenti.
Sono loro che abitano i marciapiedi, i vicoli, le strade, le piazze, i parchi e che generano funzioni essenziali nel reticolo urbano e che con i loro comportamenti e atti spontanei garantiscono le funzioni urbane importanti.
Quando un reticolo urbano si riempie di bistrot o quando l’economia di una città si basa solo sul settore gastronomico, e dove prima c’erano eventi culturali e beni di prima necessità restano solo bar o locali per bere o mangiare il fenomeno che si innesca è quello dello spopolamento dei residenti che non riescono più a vivere bene nel loro territorio di origine e sono costretti a spostarsi.
Quello che viene chiamato processo di “gourmet gentrification” che sta caratterizzando Napoli ad esempio nelle vie del centro storico, dove il moltiplicarsi di aperture di attività legate al“food” e non più al cibo del territorio, con format tutti uguali ovunque essi si trovino, ha letteralmente trasformato un intero quartiere da luogo di aggregazione a luogo di somministrazione!
In questo periodo storico in cui i termini come “food experience” e “ristorante gourmet” spopolano è fondamentale capire se il cibo sia davvero solo un prodotto che genera convivialità, se davvero è giusto trasformare le nostre città in parchi divertimenti in cui assaggiare cibi da tutto il mondo. Il cibo può anche avere effetti negativi sulla città e le persone che la abitano, agendo come strumento di gentrificazione e modificando il tessuto urbano e sociale.
E questo è solo un esempio di fenomeno di gentrificazione che determina la perdita dell’assetto urbano e con esso il rapporto città-cultura.
Difatti i contatti umani che rappresentano sempre comportamenti spontanei avvengono all’interno dell’assetto urbano il quale rappresenta il mezzo indispensabile per far sì che si stabiliscano un numero sempre maggiore di esperienze diverse, sia in termini temporali da qui l’assimilazione dei ragazzi (altra funzione essenziale), sia in termini di spontaneità, poiché avvengono in strada senza costringere lo scambio di esperienze entro limiti precostituiti (come ad esempio nelle stesse istituzioni culturali). La città è quindi una delle grandi strutture materiali della cultura.
Cosa occorre fare per ritrovare la natura della nostra città?
Bisogna ascoltare i residenti, comunicare con loro a livello di strada, quartiere, città.
Jacobs ci insegna che il flusso di informazioni spontanee che riguardano tutti e che scaturiscono direttamente dai contatti e dalle azioni della vita quotidiana devono arrivare al governo della città poiché le decisioni di quest’ultimo devono coincidere con i bisogni e i problemi resi noti da questo tipo di informazioni per un buon governo (ivi compresi tutti gli atti di pianificazione urbana).
Jacobs identifica questo scambio di informazioni spontanee con il concetto di “vicinato”.
Esso deve avvenire su tre livelli: di strada, di quartiere e di città.
L’integrazione di questi tre livelli rappresenta l’unità organica dell’assetto urbano.
Concludo con una curiosità: ogni anno nella prima settimana di maggio (in occasione dell’anniversario della sua nascita) in molte città del mondo viene festeggiata la “Jane’s walk”, una passeggiata libera durante la quale molte persone si riuniscono per esplorare e confrontarsi sulla vita dei loro quartieri, e per sviluppare un’educazione urbana e una progettazione incentrata sulle esigenze della comunità.
Grazie.
Emanuela Napolitano