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Francesca Andreozzi: «La barca a vela della legalità per mio nonno Pippo Fava»

La psicologa catanese Francesca Andreozzi ha fondato Koros, un centro di promozione sociale.

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Catania - Francesca Andreozzi, psicologa e psicoterapeuta catanese, per il Centro di cui è fondatrice e presidente ha scelto il nome Koros, che in greco significa spazio. Un’associazione di promozione sociale per la tutela del benessere della persona, attraverso l’attività interdisciplinare di psicologi, avvocati, mediatori familiari, formatori. E attraverso la vela.

Il nonno materno era il giornalista Giuseppe Fava, che denunciò la connivenza tra imprenditoria catanese e mafia e per questo fu ucciso da Cosa Nostra il 5 gennaio 1984. Nella sua Catania, davanti al Teatro Stabile per il quale Pippo Fava era anche apprezzato drammaturgo.

«Quando è stato ucciso, ero in prima elementare» racconta la nipote al Corriere della Sera. «Avevo cinque anni e non si hanno tanti ricordi a quell'età. Nel tempo ho cercato di recuperare quelli che fossero miei, non le trasposizioni dei racconti degli altri, e la maggior parte sono immagini legate al teatro. Alla fine dell'83, su proposta di mio nonno, ero stata scritturata come comparsa in Pensaci Giacomino, che andava in scena allo Stabile di Catania. Ricordo i pomeriggi passati in teatro a fare le prove e la vista del palco da dietro le quinte mentre mio nonno mi faceva vedere che da lì potevi guardare senza essere visto. Una volta mi fece sedere all'ultima fila, le poltrone vuote e gli attori sul palco a provare, e mi disse che quello era il posto migliore perché da lì di spettacoli potevi guardarne due: quello degli attori sul palco e la reazione del pubblico. Ci penso sempre, ogni volta che vado a teatro». 

Il legame di Francesca Andreozzi con il teatro ha un epilogo dolorosissimo, purtroppo. Perché è al termine di una replica di Pensaci Giacomino che suo nonno è stato assassinato. «Stava venendo proprio a prendere me» confida «ma non arrivò mai ad entrare. Mia madre mi ha sempre detto, come consolazione, che probabilmente non si è accorto di cosa stava succedendo perché era già proiettato a un pensiero positivo». Si commuove, Francesca. La voce le si spezza in gola. «C'è questo collegamento tra me e lui, tra la sua storia e la mia che, se vogliamo, nasce lì. E i ricordi più belli legati a lui sono per me quelli del teatro e del tempo che aveva voglia di passare con me». 

Alle tre nipotine Andreozzi, ancora troppo piccole, fu detto inizialmente che il nonno era morto in un incidente. «Solo molto tempo dopo fummo informate della verità, poi al liceo arrivò la consapevolezza che quella verità riguardava tutta la comunità, non solo la mia famiglia. Lì ho capito quanto fosse importante l'impegno civile, non solo come familiare di una vittima di mafia, ma come cittadina, come persona». È la spinta a un’azione concreta, prima al fianco di sua madre Elena, che costituì la Fondazione Fava nel 2002, alla fine dell’iter processuale conclusosi con la condanna di Nitto Santapaola e Aldo Ercolano, mandanti dell’omicidio di Pippo Fava. E poi raccogliendone l’eredità e il ruolo di presidente della Fondazione, una volta che Elena Fava non c’era più, «per mantenere viva la memoria ed evitare che Pippo Fava venisse ucciso un'altra volta». 

L'associazione Koros, infatti, si occupa anche di educazione alla legalità. Attraverso uno «spazio» altro, quello della barca a vela. Protagonista dei progetti VeLegalmente e Invelatamente, «percorsi di inclusione sociale in cui la vela è pensata come strumento, più che come sport» spiega la comandante Andreozzi. «A un certo punto ho pensato che il benessere che sperimentavo io in barca avrei voluto portarlo anche nel mio lavoro di psicologa, proponendo un setting diverso dai soliti». Da qui, il corso di Navigazione e formazione umana, poi l’incontro con l'Unione Italiana Vela Solidale.

E «a poco a poco si è delineata in me l'idea di lavorare con la devianza minorile, con ragazzi in messa alla prova tra i 14 e i 20 anni, nei quali può essersi già strutturata una mentalità criminale vicina all'associazione mafiosa. Sperimentare la vita a bordo, per loro, significa riconoscere l’autorevolezza del comandante, capire che ci sono regole chiare e che non rispettarle ha delle conseguenze immediate, comprendere che senza collaborazione la barca non va e ci si può fare male». Il tutto in un «micromondo galleggiante» che ha confini precisi, più ristretti di quelli di un carcere, in cui però «il contatto con la natura spalanca gli orizzonti e le prospettive» conclude Francesca.


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