Modica - Alberto Grandi è professore associato dell’Università di Parma dove insegna Storie della Imprese. Nella sua carriera ha Storia dell’integrazione europea, Storia economica e Storia dell’alimentazione. E il suo essere storico lo si vede anche nel suo ultimo, bellissimo e interessantissimo libro: “Denominazione di Origine Inventata – Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani”. Un libro di storia, scritto in un linguaggio semplice, efficace, immediato e a volte anche divertente. Se siete pronti a rivisitare tutti i vostri concetti sulla cucina italiana, sulla tipicità di certi prodotti, sulla nascita del concetto di dieta mediterranea e su molti altri racconti mitici circa le DOP, le IGP e i Presidi Slow food, allora questo è il libro che fa per voi. Già, bisogna ammetterlo: leggere il libro di Grandi è come togliere il velo dagli occhi. Tutto ciò che fino a questo momento credevamo di sapere, più per ignoranza che per studio, cade come un castello di carte. E, ovviamente, non fanno eccezione neanche due prodotti “tipicissimi” del nostro territorio: il pomodoro Pachino IGP e il Cioccolato di Modica. Grandi, in realtà, su questi due prodotti non dice cose estremamente nuove. Diciamo, piuttosto, che sono cose che facciamo fatica ad accettare. Le tesi di fondo del libro sono principalmente due: la cucina italiana intensa come concetto assoluto non esiste e non si rifà a nessuna tradizione, piuttosto è un’invenzione nata negli anni ’70. Non è detto che un’operazione di marketing sia necessariamente negativa: al contrario, in alcuni casi, si è saputo sfruttare un prodotto per promuovere un intero territorio. E allora, che ben venga, ma la maggior parte dei prodotti che noi consideriamo storici in realtà sono invenzioni relativamente recenti. Ciò, naturalmente, non deve farci dimenticare da dove partiamo: la verità della storia che, per quanto possa anche non piacerci, non possiamo certo far finta che non esista.
IL MITO DELLA CUCINA ITALIANA
La cucina italiana, in realtà, è un mito, nato negli anni ’70. Molti pensano che la cucina italiana affondi le proprie radici nel Medioevo e nel Rinascimento. Niente di più falso. Grandi cerca di sfatare i cinque miti della cucina italiana.
- La cultura gastronomica italiana affonda le sue radici nella cucina medievale e rinascimentale
- La cucina italiana è la somma delle cucine regionali
- Pellegrino Artusi è stato un grande cuoco e un conoscitore delle varie cucine regionali italiane
- Gli emigranti italiani portarono con sé la cultura gastronomica delle loro terre e la diffusero nel mondo
- Gli italiani si sono sempre nutriti seguendo i principi della cosiddetta “dieta mediterranea”.
Tutti questi miti, Grandi li sfata come neve al sole. Ciò che nel Medioevo era considerata “alta cucina”, cioè quella cucina riservata al ceto abbiente delle città-stato, era strettamente legato alla cucina dell’epoca che consisteva nella convinzione che il corpo umano è sano quando tutti gli elementi sono in equilibrio. Tale equilibrio si può preservare anche grazie all’alimentazione. Un cibo era considerato sano e gradevole se possedeva i suoi caratteri fondamentali: salato, piccante, acido, ecc. Le spezie, poi, servivano ad equilibrare le pietanze. Nel Medioevo, dunque, le pietanze erano “agrodolci” e lo zucchero veniva usato come spezia per compensare il salato. Grandi, naturalmente, ironizza sui possibili manicaretti medievali. La verità è che quella cucina non era dissimile dal resto delle altre corti Europee: l’unica differenza poteva essere l’uso del vino, non coltivabile per ragioni climatiche nei Paesi freddi, dove veniva usata la birra, e l’uso di oli vegetali e non di grassi animali. Ma il declino economico dell’Italia, spazzò via anche la sua cucina e fu così che per secoli il modello imperante fu quello francese. I ricchi italiani mangiarono “alla francese” almeno fin dopo l’unità d’Italia.
Parliamo, ovviamente, sempre di aristocratici e clero, in quanto il resto della popolazione contadina si nutriva di ciò che trovava nelle vicinanze o di ciò che riusciva a coltivare per la propria sussistenza. Pasta e pane, che erano diffusi in varie forme in tutto il bacino mediterraneo, erano quasi del tutto sconosciuti. Tra l’altro, il pane e la pasta (compresa la pizza, che ovviamente non si chiamava pizza, ma si intendeva un disco di pasta di pane con qualcosa sopra), furono introdotti, molto probabilmente, dagli arabi. Sta di fatto che quando un italiano voleva mangiare bene, non mangiava “all’italiana” (concetto che peraltro non esisteva ancora), e nemmeno alla “lucchese” o alla “napoletana”: mangiava alla francese, anche dopo la pubblicazione di quello che è considerato il primo ricettario della storia d’Italia: "La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene” di Pellegrino Artusi che non era né un cuoco, né un appassionato antropologo. La fortuna di questo libro è solo nella sua compilazione di alcune ricette territoriali e che poi, già durante la prima migrazione verso gli USA, divenne la bibbia gastronomica degli italiani all’estero. E si, signori e signori. La tesi di Grandi, per certi versi abbastanza sconcertante, è proprio questa: la cucina italiana è nata in America, grazie agli emigranti italiani. Con grande perizia storica, infatti, lo scrittore spiega che un bel pezzo della cucina italiana è nata in America. Fino a prima della Prima Guerra Mondiale, il governo americano non guardava di buon occhio ciò che mangiavano gli emigranti italiani, considerati alla stregua dei peggiori malfattori. L’alleanza durante la Prima Guerra, sdoganò anche quel concetto e da quel momento gli alleati italiani divennero eroici. E anche il loro cibo non era poi più così disgustoso. La cucina degli emigranti era la cucina di ciò che avevano sempre sognato: le possibilità economiche permettevano loro di comprare prodotti che prima si erano solamente sognati. I “maccheroni”, spesso utilizzati come cibo da strada a Napoli venduti in bianco, adesso potevano essere conditi col sugo di pomodoro o con altri ingredienti che trovavano più facilmente in America e non nelle campagne venete, dove il massimo che potevano trovare era il mais.
E non a caso, erano i contadini veneti gli italiani malati di pellagra. E in effetti, il primo vero locale dedito esclusivamente al consumo di pizza (quindi la prima vera pizzeria della storia) è nata a New York nel 1911 e non a Napoli, dove il disco di pane era considerato cibo da strada. L’Artusi, da ricettario di un simpatico signorotto che intratteneva rapporti epistolari con le massaie, divenne libro per esperimenti gastronomici. Questi emigranti, naturalmente, raccontavano ciò che succedeva da loro e mandavano anche soldi in Italia ai parenti. E fu così che i maccheroni vennero sdoganati prima in America e poi anche in Italia. Ma la seconda Guerra Mondiale riportò il Paese in una fase di regressione, dal punto di vista dei consumi, che solo il piano Marshall potè risollevare. Fino agli anni ’70, allora, in Italia il modello di consumo prediletto era quello industriale: il cibo prediletto era quello all’americana, si cominciano a vedere i primi cibi in scatola, i dadi per fare il brodo e i biscotti nel sacchetto. E’ in questo momento che l’Italia perde gran parte delle proprie tradizioni, come sottolineato in maniera acuta da un inarrivabile intellettuale come Pasolini. L’invenzione del frigorifero, poi, permise di “democratizzare”, per la prima volta, i consumi del povero e del ricco e la spesa non divenne poi così diversa fra ceti medi e ceti alti. Ma la crisi degli anni ’70, fu una brutta bestia. L’Italia scoprì che il progresso economico non poteva essere eterno e che pur avendo barattato le proprie tradizioni, il potere d’acquisto non era sempre in ascesa.
E’ questa la fase che Grandi chiama “stagione delle scorciatorie”, in campo politico e sociale, “perché la cura vera avrebbe dovuto essre troppo pesante”. E tutto ciò, naturalmente, si ripercuote anche nell’alimentazione. Nasce quella che viene definita “la favolosa epopea del piccolo è bello, nella quale si glorificava tutto ciò che non era grande impresa”. Ed è proprio in questo periodo che irruppero nella scena i coniugi Keys, gli “inventori” della dieta mediterranea. Ancel e la moglie Margaret avevano fatto uno studio sulle popolazioni del mediterraneo negli anni ’50 in cui avevano scoperto che chi mangiava di meno aveva il colesterolo basso. Può sembrare una ridicolaggine, ma loro cercavano una risposta ai grassi americani che già a quel tempo intestavano la nazione. E così, la dieta mediterranea (che non riguardava solo l’Italia), fatta di grassi vegetali, verdure e pesce, poteva aiutarli. Negli anni ’70, il mito della dieta mediterranea divenne imperante e riguardò quasi esclusivamente l’Italia. Il marketing, in fondo, oggi ha scoperto questo: il passato rassicura. O almeno, spaventa meno del futuro. Ed è per questo che ogni paese sperduto s’inventa una storia, più o meno veritiera, sul proprio prodotto, grazie all’uso sapiente di paroline magiche come “territorio”, “eccellenza”, “slow food”. Ma forse la ricerca spasmodica di una tradizione che spesso non c’è, non è altro che un modo come un altro per nascondere il declino industriale, economico e sociale di questo Paese, che si aggrappa ad un passato, qualunque passato, anche inventato, illudendosi di fare business in questo modo. Questo è il paese in cui due regioni come il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia si fanno la guerra da anni per stabilire l’esatta paternità del tiramisù, e in cui i politici, anche nazionali, scendono in campo per difendere l’onore di una salsiccia o di un formaggio.
IL POMODORO PACHINO (MADE IN ISRAELE)
La questione in realtà è nota ma si dimentica spesso: il pomodoro Pachino non è certamente originario di Pachino, ma i semi di questa varietà furono inventati in Israele nel 1989 dalla Hazera Genetics. Questa società non è che produce OGM, si limita a fare incroci e ibridazioni per creare nuove varietà con determinate caratteristiche fisiche, di gusto e valore nutrizionale. L’ibrido F1, cioè il seme del pomodoro Pachino, non è stato subito accolto a braccia aperte ma quando i produttori si decisero a coltivarlo fu un successo talmente grande, da meritarsi il riconoscimento IGP. Il pomodoro Pachino, tra l’altro, è coltivabile tutto l’anno e supera così di gran lunga il problema della stagionalità. Una storia nota, che esce pure su Wikipedia, ma che molti fanno fatica ad accettare e a riconoscere: il pomodoro Pachino viene prodotto con semi israeliani.
I VERI CONQUISTADORES DEL CIOCCOLATO DI MODICA
Anche il mitico cioccolato di Modica ha una storia che sicuramente non può essere vera. Secondo il mito, i conquistadores spagnoli avrebbero appreso dagli Aztechi del Messico il metodo per produrre il cioccolato e poi sarebbero andati in Sicilia, che faceva parte del dominio spagnolo e qui avrebbero portato quest’arcaica lavorazione del cioccolato. Una storia totalmente assurda, che Grandi chiama “Sindrome dei Flinstones” cioè l’idea che a base della storia deve esserci un passato glorioso. Nella storia del cioccolato di Modica c’è tutto: Colombo che attraversa l’Atlantico con le Caravelle, la conquista dell’America, gli Aztechi, diventati ormai oggetto di culto. Un po’ come i templari. La storia del cioccolato di Modica, invece, è la storia di un grande successo di marketing che ha saputo portare al successo un intero territorio e poco importa che la storia sia falsa. L’unico elemento di contiguità con la Spagna è stato reso noto da Leonardo Sciascia che paragona Modica ad Alicante, città spagnola dove si produceva dell’ottimo cioccolato aromatizzato con vaniglia, cannella o altre spezie. Ma la lavorazione “a freddo” è tipica solo di Modica e secondo Grandi i tentativi di produrre cioccolato senza separare il burro di cacao dai semi di cacao macinati a temperature relativamente basse, in modo che i cristalli di zucchero aggiunti non si sciolgano, è un’idea realizzata da Franco Ruta tra il 1990 e il 1992, quando subentrò al padre nella gestione della Dolceria Bonajuto. Il vero miracolo non è quello di aver riportato in vita un’antica ricetta ma di essere riusciti, in meno di 25 anni, a far lavorare insieme istituzioni e aziende private per dare vita ad una nuova economia locale.