Madrid - Ci sono in tutte le lingue antiche e moderne parole proibite che sono tra le più conosciute e usate in quelle parlate.
Avevo come professore di Spagnolo Colloquiale all’Università Complutense di Madrid un tizio che si divertiva a spedire le ragazze del corso in tutti i cessi dei locali pubblici della città allo scopo di trascrivere le tipiche espressioni che è possibile leggere in questi ambienti. A fine corso il mio amico professore pubblicò un testo così esilarante che presto diventò un curioso best seller.
E’ chiaro che difficilmente alcune parole definite “volgari” si potranno incontrare nell’austero e puritano dizionario della R.A.E. (Real Academia Española)anche perché il Dizionario è stato compilato e aggiornato in epoche sempre molto vigilate dalla censura.
Altri importanti dizionari, come ad esempio quello di Maria Moliner, con più libertà invece registrano queste voci. Penso anche a dizionari “laici” come quello di Manuel Seco, Olimpia Andrés e Gabino Ramos e ai nuovi dizionari ispanoamericani, per esempio.
Alla mia domanda sul perché questo genere lo divertisse tanto, il mio amico professore rispose con molta serietà:
-La vera lingua non è quella adoperata dagli scrittori e dai poeti, codificata dalle Accademie, insegnata da prestigiosi manuali. No. La vera lingua è quella parlata nelle strade, inventata momento per momento anche da poveri analfabeti, è quella nella quale il popolo s’identifica e ascolta.
Pio Baroja, Camillo José Cela, tutto questo lo capirono ed erano dei celebri accademici. Scrissero le loro opere più famose utilizzando uno spagnolo che altro non era se non la lingua dell’uomo della strada. E tutti poterono leggerli e per questo la censura li vietò. Se la letteratura non s’incarna, si trasforma presto in un esercizio sterile, in una storia senz’anima.-
Forte di queste sacrosante spiegazioni, tempo fa volli anch’io cimentarmi nello studio delle parole che una volta il bon ton categoricamente proibiva. Venne fuori un divertente assemblaggio di nozioni e di considerazioni che, superate le prime perplessità comprensibili, ho deciso di condividere oggi con quanti avranno la curiosità di leggere.
Il Dizionario della Moliner è naturalmente una delle fonti principali alle quali ha attinto la mia ricerca. Ma ho anche consultato altri dizionari di cui ho parlato sopra.
Minga: aferesi di Domingo, volg. pene (anche se in questo caso sia da preferire l’origine latina dal verbo mingere=orinare ndr.) In siciliano Mínchja.
¡Minga! Interiezione molto comune nell’America Latina (Dizionario Ispanoamericano)
Mingamuerta: uomo sessualmente impotente (Dizionario Seco-Andrés-Ramos)
Picha (anche pija): [piccia] volg. pene. In siciliano Cicia.
Pichula: [pi∫ulla] Argentina, Cile, Perù, Uruguay: volg. pene. In siciliano Piciolla.
pichulear: [piciulear] Term. ispanoam. 1) fare affari di poco conto. 2)Argentina, Uruguay: mercanteggiare sul prezzo di una cosa. 3) Cile: ingannare. In siciliano “pi∫ulliári” con significati quasi identici.
Sicuramente erano termini, questi, che ritornavano in Spagna dall’”America dei Primi Conquistatori” e che si diffondevano poi in tutto il regno.
Per effetto dell’evoluzione linguistica, queste parole nello spagnolo moderno della penisola iberica sono molto poco usate. Sono invece usatissime ancora in America Latina, dove la lingua subì un’evoluzione molto più lenta che in Europa.
Da noi sono rimaste perché la Contea di Modica fu letteralmente abbandonata a se stessa e, per ciò, le fu preclusa ogni possibilità di evolvere il suo dialetto.
Rabo: dal lat. rapum, volg. pene
Credo che il termine roba di chiazza abbia a che fare più con questo termine che non con vestiti e stoffe varie. Rabo de plaza, rabo di chiazza o ciazza (pl=c o ch) ha un significato! Oggi a Madrid questo termine si tradurrebbe con “chulo barato”. Cioè “guappo di cartone”.
Cojones: dal lat, coleo e a sua volta dal greco Koλεός, borsa di cuoio.
descojonarse: [(de)scujunárisi] diversamente coniugato.
Menear: dal lat. minare (RAE);
dall’ant. manear da mano con influenza dell’ant. menar: condurre (Moliner). Cambiare la posizione o la sistemazione di una cosa.
Tanti anni fa quando il pane si faceva (scaniáva) in casa, di chi girava la massa (u pastúni) sulla Sbríula (un piano di legno in testa al quale era inserita, a mò di leva, una specie di remo,u sbriuni, che, impugnato da una persona, fendeva ripetutamente la massa per amalgamarla)si diceva che “minava”.
meneársela: [minarasílla], masturbarsi (si riprende l’immagine della panificazione)
Las tijeras: [lasticcheras] dal lat. ferramenta tonsoria. 1) forbici. 2) si usa in frasi per definire l’azione di sparlare. 3) gambe divaricate.
Tijeretear: non farsi gli affari suoi.
E’ il terzo significato che sicuramente ha a che fare con il nostro “Stícchju”. In tempi passati difatti la vulva era chiamata dal popolo incolto dei bassifondi (soprattutto dalle donne dei vicoli)“sticchéra”, da cui forse per abbreviazione “stícchju). L’azione delle forbici che “tagliano” richiama l’atto sessuale, non per niente una delle posizioni erotiche più conosciute nel mondo ispanico è proprio “las tijeras” cioè “le forbici” per via delle gambe della donna divaricate a forbici durante il coito.
Coño: dal lat. cunnus.
In siciliano cunnu, da cui per derivazione: ‘ncunnátu: detto di chi è troppo attaccato alla sottana della madre.
Dulcis in fundo:
Pícaro/a: Forse da picar, in Port. pure pícaro. Chi o che cosa manca di onore e di decenza. 2) sessualmente malizioso (RAE). Ma anche volgare e brutto a vedersi.
Io credo che tanto il nostro ingrato epiteto “facci ri pícara” quanto il nome del pesce razza (o raia) abbiano a che fare con questo termine.
Come Descarado (sfacciato, senza vergogna) ed enmascarado (persona che suole camuffarsi) hanno a che fare con mascarátu nel senso dispettoso che in siciliano questo termine assume.
Come atrevido, dal lat. attribuere (essere insolente fino a mancare di rispetto) ha a che fare con attruvítu (con lo stesso significato in siciliano)
Come “que no estás callado/a” con scagghjátu/a . insolente che ribatte con vivacità e prontezza
e
callarse, tacere, con cagghiárisi. Callar dal lat. chalar e a sua volta dal greco Χαλάω, abbassare.
Come engrasar ( dal lat. crassus) e quindi engrasado. (Tra i vari significati: l’atto di sporcare gli abiti di grasso a causa dell’uso frequente) sinonimo di sporcare, ha a che fare con ‘ncrasciátu”: termine molto dispettoso per dire di una persona che è sporca anche dentro.
Ci sono parole che sopravvivono nella nostra cultura moderna nonostante l’evoluzione dei tempi. E noi meccanicamente le usiamo senza peraltro renderci conto delle antiche origini o del loro vero significato. Ma spesso è proprio il loro significato a rivelarci le origini.
Non è poi azzardato affermare che alcune di esse le abbiamo sentite e subito apprese sin dalla più tenera età.
A questa lingua proibita, maltratta e negletta dedico la mia piccola ricerca condotta senza nessuna pruderie ma col sorriso ingenuo e curioso del bambino che ascolta.